venerdì 7 aprile 2023
Al Museo d'Orsay una retrospettiva indaga stili, temi e modi di dipingere dei due massimi geni della pittura moderna francese del XIX e XX secolo: una sfida sublime senza vinti e vincitori
Edouard Manet, "La prugna" (1877 c.)

Edouard Manet, "La prugna" (1877 c.) - Washington, National Gallery of Art

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Al Museo d’Orsay una retrospettiva indaga stili, temi e modi di dipingere dei due massimi geni della pittura moderna Una sfida sublime senza vincitori Parigi Ci sono immagini che marcano nella memoria il sentimento di un carattere che incarna una personalità. In questo caso, si tratta di due personaggi, quanto mai diversi, ma uniti dalla volontà di restare degni delle proprie convinzioni, tanto nella vita di ogni giorno quanto nella loro vocazione artistica (senza rimanere prigionieri di una immagine perfetta della natura umana). Finita la Guerra franco-prussiana del 1870 con un’onta per i francesi che avrà conseguenze durevoli nell’inimicizia fra i due popoli “fratelli” – così li descriveva Rémy de Gourmont in quel suo saggetto “pacifista” ma dal titolo sarcastico che gli costerà il posto alla Biblioteca Nazionale, Le Joujou patriotisme –, iniziò la breve stagione della Comune, nei primi mesi del 1871, che finirà con la “settimana di sangue” dove decine di comunardi vennero fucilati contro il “muro” del cimitero Pére- Lachaise e poi fotografati, a maggior ludibrio, dentro le bare poste in piedi, come fantocci-cadavere vinti dalle armate di Mac-Mahon, vale a dire le truppe fedeli a Versailles. A ricordarcelo ancora oggi oltre ai disegni di Manet e di altri, sono proprio le foto di André-Adolphe-Eugène Disdéri, scaltro testimone che divenne ricco brevettando la “carte de visite”, dove sembra di vedere certe cave sotto le chiese in cui venivano tumulati i religiosi passati a miglior vita. Ecco che in questo scenario autoflagellante – i giornali d’epoca sono pieni di disegni della città sventrata e in fiamme – i due fratelli-coltelli della pittura francese, vale a dire Manet e Degas, vengono immortalati come due teste calde dalle parole della madre di Berthe Morisot, che scrivendo alla figlia in quei giorni di sangue le comunica che Tiburce, il fratello, «ha incontrato due comunardi, proprio adesso che li fucilano tutti, Manet e Degas! Anche oggi accusano la repressione troppo dura. A me sembrano pazzi e a te?». Bisogna conoscere anche l’altra faccia della medaglia: i due pittori avevano mostrato di avere un attaccamento alla Francia e un carattere solido arruolandosi volontari per difendere la patria che, al contrario, il pur miracoloso Monet non ebbe essendo fuggito a Londra con Pissarro appena scoppiata la guerra. E non furono gli unici ad arruolarsi, un altro grande pittore, Jean-Frédéric Bazille fu meno fortunato e, arruolatosi fra gli zuavi, morì in battaglia a Orleans.

Ritrovare oggi Manet e Degas sulle “trincee” o, se preferite, sulle “barricate” del Museo d’Orsay per una mostra che ne vuole rispecchiare e contrastare i temperamenti artistici, ma anche la loro storia amicale non priva di rotture, ruvidità, gelosie, ironie reciproche, rappresenta una specie di momento irripetibile a chi ha, per ragioni diverse, apprezzato e amato il genio di entrambi anche in mostre che lo stesso d’Orsay ha dedicato loro negli ultimi due decenni (fugando subito ogni dubbio, dirò che il mio invincibile pregiudizio favorevole va a Degas per ragioni che riguardano la continua sperimentazione, l’anticonformismo, lo stare aristocraticamente dalla parte del torto, i fulminanti giudizi sull’arte del suo tempo, fino all’intuizione di forme nuove che oltrepassano la stessa dimensione visiva e sublimano il potere dell’occhio persino nella sostanza verbale, laddove, come scrisse Mallarmé – e scusate se è poco – gli otto sonetti composti da Degas erano un distillato poetico di prim’ordine; per non dire poi della sua altezza in ambito scultoreo).

Edgar Degas, 'L'assenzio' (1875-76)

Edgar Degas, "L'assenzio" (1875-76) - Parigi, Museo d'Orsay

Per chi dunque non ha difficoltà a collocare i due pittori ai punti più alti nella scala della pittura ottocentesca e oltre, anche un quadro come il ritratto di Manet con la moglie Suzanne al pianoforte, pur giunto a noi menomato dal taglio che il destinatario gli inferse perché colse nel volto di lei tratti poco nobili, ha lo strano effetto di rendersi oggi persino più moderno di quanto lo stesso Degas potesse immaginare. Quel taglio, segno spregiativo sull’amor proprio di Degas, tanto che l’autore sdegnato se ne andò da casa Manet senza nemmeno salutare, finisce per essere un vero taglio visivo, dove la tela neutra ricucita funge da ostacolo che nasconde e costringe a immaginare lo spazio reale e ciò che vi si cela o, per così dire, ciò che è stato negato da un diaframma in sé già “fotografico”. Questa mostra segue passo su passo il tandem pittorico nel perenne e anche un po’ filisteo scontro di idee e di caratteri (alla morte precoce di Manet nel 1883, Degas confessò che «era più grande di quanto non pensassimo»). Così se Manet agli inizi potè invidiare Degas perché stava «per diventare il pittore della buona società», a sua volta venne tacciato di essere un borghese che aspirava solo al successo; e quando Manet rifiutò di partecipare alla mostra degli indipendenti nel 1871, Degas scrisse a Tissot: «Sono decisamente convinto che in lui ci sia più vanità che intelligenza». Degas sapeva, e non era difficile capirlo, che Manet ambiva a esporre al Salon. Voleva essere riconosciuto per il genio moderno che era, e nella fama trovare anche un po’ di agiatezza.

Questa mostra parigina, nata congiuntamente dall’impegno del d’Orsay e del Metropolitan di New York (fino al 23 luglio al d'Orsay, poi dal 24 settembre al Metropolitan), curata da Laurence Des Cars, presidente e direttrice del Louvre, già a capo del d'Orsay e promotrice all'epoca di questa mostra, e da Stéphane Guégan e Isolde Pludermacher, è emozionante al solo pensiero di assistere a una sorta di match duchampiano che si conclude in posizione di stallo. Eppure, nella sequenza “passo su passo” si avverte qualcosa di irrisolto, e forse d’irrisolvibile. È una sensazione che consiglia di non fissarsi su temi o rimandi troppo speculari o reciproci, il vero punto focale sarà, piuttosto, una sensibilità verso lo stile di entrambi che consenta di comprendere il diverso gioultimi co dello sguardo: più costruttivo e formale nel rapporto con lo spazio, quello di Degas (per il quale l’arte, in definitiva, nasceva dall’arte ed era frutto di convenzioni); più sintetico e quasi astratto nel modo di governare una realtà del colore, la sua forza plastica, che si sovrappone anzi alla realtà della vita e delle cose, raggelandola in uno spazio piatto e innaturale, quello di Manet (il Torero morto, L’esecuzione di Massimiliano di Mannheim, non quella ricomposta di Londra, ma anche Sulla spiaggia, a cui viene giustamente accostato Bagni al mare di Degas che sfodera un insospettato à plat, fino al fluttuante pastello Il riva al mare di sapore orientale).

Il livello di astrazione manetiano si svincola con difficoltà quando affronta il tema più irreale: il Cristo fra gli angeli, una sfida all’incredulità: la versione a china e gouache è l’architettura disegnata di questa astrazione, che nella versione a olio si concede dettagli come quel tocco rosa carne che copre, a mo’ di tache, parte delle dita del piede destro. Degas parlò di “pasta trasparente”, ed è la classica confessione di chi abbassa le armi vedendosi preso in contropiede rispetto al proprio sapere pittorico. È un segreto, questo colore di Manet, che riappare con una diversa solidità carnale, quasi scultorea, nell’Olympia, che sembra piuttosto una ricreazione di laboratorio della carne umana, quasi che Manet dipingesse la larva che riveste la realtà come una placenta oscura, e può darsi che questo avvenga anche nella trasmutazione della stessa pittura del passato, Velázquez e Goya, o Raffaello, in virtù di una luce affatto infera, dunque già ultraterrena.

Proprio un dipinto come il Déjeuner sur l’herbe diventa la terra di questa trasmigrazione della pittura dallo spazio dell’arte e della vita in un mondo “altro” dove l’apparente realismo è mediato dalla memoria estetica e dalla viscida consistenza del colore che risplende di toni freddi quando non del tutto gelidi o anaffettivi: si vedano, a tal proposito, i modi del tutto diversi e opposti di rendere il ritratto del pittore Desboutin: larvale Manet, drammatico Degas, il quale, credo, era nondimeno ammaliato dallo stile dell’amico. E per questo poteva perdonargli quasi tutto. L’accusa di Manet, che non capiva l’inclinazione affettiva di Degas – «È privo di naturalezza, non è capace di amare una donna, né di parlarle, né di combinarci nulla» – era un giudizio privo di umanità, che Van Gogh, in una lettera al fratello, invece smonta con una osservazione fulminante quando definisce casta l’indole dello sguardo di Degas verso la donna, sia che l’ami sia che la dipinga in occupazioni prosaiche o di nascosto. Andrebbe considerata anche l’analisi di Edmond de Goncourt che nel 1874 scrive nel Diario: «Un tipo originale, questo Degas, un malato, un nevrotico, un oftalmico sino al punto d’aver paura di perdere la vista; ma con ciò, un essere eminentemente sensibile e ricettivo al contraccolpo della natura delle cose». Quanto all’oftalmico, aveva ragione Degas visto che passò gli trent’anni a convivere col calo della vista e finì, buon per noi ma un po’ meno per lui, per realizzare vari capolavori come facesse la “scultura per ciechi”, avrebbe detto Genet, che usò questa espressione per Giacometti.

Sintesi finale, quella di Valéry: «Degas rifiutava la facilità, come rifiutava tutto quello che non fosse l’unico oggetto dei suoi pensieri. Non sapeva augurarsi che d’approvare sé stesso, ossia d’accontentare il più difficile, il più duro e incorruttibile dei giudici». Manet non eseguì nessun ritratto di Degas, mentre questi ci ha lasciato sette o otto fogli e alcuni dipinti dove lo mostra in piedi o seduto; un segno finissimo, quasi da entomologo, nel rendere l’animo dell’amico. Al quale, dopo l’incidente della tela tagliata, aveva restituito il dipinto con le prugne che Manet gli aveva donato in cambio del suo. Fu uno screzio da poco, e anche uno sfoggio di vera ironia, quando tempo dopo il litigio Degas disse a Vollard: «Come si fa a restar male con Manet? Aveva già venduto le prugne». Massimo cinismo, quello di Manet, che ricambia non più il dono ma lo sgarbo. Questa mostra racconta una storia emblematica, ma paga pegno a un’asimmetria non da poco. Erano quasi coetanei, ma Manet morì a 51 anni e Degas a 83: trentadue anni non sono roba da nulla. Degas continuò a giocare la sua partita anche dopo la morte di Manet e il legame con l’amico si rinsaldò in un’opera collezionistica che col tempo lo portò a possedere otto dipinti, una dozzina di fogli e quasi tutta l’opera incisa del pittore. Degas, maestro nelle tecniche grafiche (inventore sostanzialmente dei monotipi), colleziona il segno istologico di Manet; la sua è distillazione dello stile, un gesto critico insomma. In casa aveva una copia dell’Olympia eseguita dal giovane Gauguin.

Non ha molto senso nemmeno fare delle graduatorie, se non di gusto personale o su valori critici, pur di non dimenticare che la critica è sempre un giudizio relativo. Come Degas cominciò tardi a fare scultura in modo intensivo, se fosse vissuto più a lungo probabilmente avrebbe tentato quella via anche Manet, anche solo per attrazione verso le sperimentazioni dell’amico. Ma non credo l’avrebbe seguito nella poesia e nella fotografia, se non altro per la scomunica di Baudelaire verso il “terzo occhio” e per un amore narcisistico che aveva delle proprie doti pittoriche.

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