venerdì 2 luglio 2021
Tanti i calciatori di questa Nazionale, pronta per la sfida con il Belgio, che devono la loro personalità e la formazione al campetto della chiesa del paese in cui sono nati e cresciuti
Italia-Belgio stasera. Mancini guida la carica degli "oratoriani" azzurri

Ansa

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Agli Europei di Polonia-Ucraina 2012 scesero in campo i "pretoriani" di Cesare, Prandelli. Galoppata fino alla finale di Kiev, persa nettamente contro la Spagna, ma comunque vicecampioni d’Europa con una Nazionale che visse momenti di gloria, soprattutto negli attimi di fantasia creati dai due nevroromantici per antonomasia, il "black italian" Mario Balotelli e la peste di Bari Vecchia, Antonio Cassano. Ragazzi di strada, ribelli, sognatori da incubo e fuggitivi, assai distanti dallo spirito di questa Italia di Euro 2020 che questa sera, ai quarti, punta a eliminare il Belgio del gigante buono Lukaku e ad arrivare alla finale di Wembley dell’11 luglio.

Per centrare l’obiettivo servono tutte le risorse a disposizione, a cominciare da quel valore aggiunto che forse sta nella forza degli 'oratoriani'. «La mia prima squadra è stata l’Aurora, la formazione dell’oratorio di San Sebastiano, a Jesi». È lì, agli inizi degli anni ’70, nella sua città natale che è cominciata la favola di Roberto Mancini: l’ascesa inarrestabile del baby prodigio del Bologna e poi del n. '10' della Samp dell’unico scudetto vinto (1990-’91) con il suo fratello doriano ed eterno compare in azzurro, Gianluca Vialli. Nel campetto della chiesa il primo ad accorgersi delle doti straordinarie del futuro campione e ct della Nazionale fu don Roberto Vigo.

L’idolo di Belotti è don Sergio, mentre Bastoni è «un esempio di fede» per don D’Agostino



Una storia che Mancini alla vigilia degli Europei ha raccontato, con timidezza fanciullesca, entrando nei Giardini Vaticani, confrontandosi anche sul tema della fede con don Dario Viganò nella trasmissione di Rai 1 A sua immagine. E questa Nazionale è davvero a sua immagine, quella dell’ex ragazzo di Jesi che a don Viganò ha ribadito «quanto sia stata importante la mia formazione oratoriale». Il gusto del gioco - «del Giuoco», sottolinea il commentatore di Rai Sport ed ex azzurro Eraldo Pecci, cresciuto anche lui all’oratorio di Cattolica - fine a se stesso in un tempo come l’adolescenza, in cui anche il talento si comporta da quel perfetto amateur tanto caro a papa Francesco.

Prima di lui, il “Papa dello sport” è stato Giovanni Paolo II che, anche per spirito agonistico, era assai affine a san Giovanni Bosco, il padre fondatore della cultura oratoriale. «Quando vedo i giovani tutti occupati nel gioco son sicuro che il demonio ha un bel da fare, ma non riesce a nulla».

Il gioco che salva dalle tentazioni e i pericoli della strada l’hanno sperimentato oltre al ct Mancini e il gemello del gol Gianluca Vialli («sono figlio di Grumello e dell’oratorio del Cristo Re») di molti dei suoi azzurri. A cominciare dalla grande rivelazione di questo Euro 2020, Manuel Locatelli. All’oratorio di Pescate (Lecco) lo chiamavano 'Zizou', «già come Zidane», ha raccontato divertito tante volte ricordando gli esordi. È lì che Locatelli ha cominciato a fare le cose per bene: sotto la guida paterna ha tirato i primi calci passando presto nella premiata cantera dell’Atalanta per finire a 11 anni nelle giovanili del Milan. Un «predestinato» alla maglia rossonera, che invece gli viene avventatamente tolta, costringendolo a ricominciare la scalata alle vette del grande calcio. Ripartenza del 'Loca' dal laboratorio permanente di Sassuolo. Una “retrocessione” avrebbe pensato qualsiasi ventenne ambizioso di Serie A, ma Manuel è uno abituato a «lavorare come Oriali» (canta Ligabue in Una vita da mediano. Già, il Lele Mundial dell’82, ora team manager della Nazionale, anche lui battezzato calcisticamente all’oratorio di via Grandi a Desio. Max Allegri stravede per l’oratoriano Locatelli e lo vorrebbe alla Juventus, ma servono 40 milioni di euro. Cifre distanti anni luce dai lampioni del campetto dell’oratorio dove si gioca gratis e per amore di Dio. Mancini che in gioventù è stato parzialmente vittima dei “blocchi azzurri” (i convocati erano in prevalenza ju- ventini, milanisti o interisti) non c’ha pensato due volte ad affiancare Locatelli al compagno di squadra, il ragazzo di Calabria Mimmo Berardi. E il ct è stato ripagato da prestazioni splendide dal Manuel di Pescate che si è tolto anche lo sfizio di segnare alla Tardelli uno dei due gol realizzati fin qui, e ora sogna il terzo al Belgio.

Tra i due, a Sassuolo è spuntato Giacomo Raspadori, il più giovane del clan azzurro con i suoi 20 anni. I primi li ha trascorsi all’oratorio di Castel Maggiore, nel bolognese, «ma lì si parlava e si faceva quasi solo basket». Disciplina formativa ma Giacomino c’ha pensato un attimo e ha subito virato sul campo di pallone della Progresso. La squadra in cui ha cominciato a dare segnali di quello che ora viene accostato al «nuovo Totò Di Natale», «mi hanno dato anche dell’Aguero», dice orgoglioso Raspadori, «ma sono paragoni troppo forti per uno che ha appena iniziato ». Umiltà e consapevolezza manciniana, la stessa che fa dire al ct, messo a confronto con lo storico selezionatore Vittorio Pozzo: «Lui ha vinto due Mondiali e una Olimpiade, io ancora niente».

Tanti gol in maglia granata ma zero titoli per il cuore Toro Andrea Belotti che è rimasto sempre il ragazzo di Dossena, il paesino della Val Brembana. È qui che predica e fuma il suo buon sigaro toscano quello che il 'Gallo' Belotti chiama «l’eroe della mia vita». È l’arciprete don Sergio Carrara, il parroco che quando sulla 'Gazzetta dello Sport' lesse la dichiarazione del bomber del Torino si commosse.

Dalle intense emozioni via skype, scambiate in tempi di lockdown, tra don Marco D’Agostino e il suo ex allievo al Liceo Vida di Cremona, l’azzurro Alessandro Bastoni, è nato il libro Se aveste fede come un calciatore (San Paolo Edizioni). Qui è il giovane campione che diventa punto di riferimento del suo Prof. il quale quando lo interroga sul cosa si prova a dover marcare Cristiano Ronaldo, Bastoni candido risponde: «Don Marco, dalla difesa non passa nessuno». Una sicurezza quella del difensore dell’Inter campione d’Italia che ha fatto confessare a don D’Agostino: «Se avessi la stesa fede di Bastoni quando scende in campo, probabilmente la mia vita sarebbe diversa».

È stata sicuramente un’infanzia diversa quella vissuta in oratorio da molti degli azzurri che stanno tentando l’euroimpresa, uniti dalle origini su quei campetti polverosi di provincia e dagli insegnamenti fondamentali di qualche curato di campagna. La pratica cristiana e la fede in Dio fanno parte dell’allenamento quotidiano del centrale della Lazio Andrea Acerbi. Cresciuto nell’humus oratoriale della Voluntas Brescia, la sua storia di rinascita, dopo essere guarito dal tumore, Acerbi l’ha raccontata nell’autobiografia Tutto bene (Sperling & Kupfer). Pagine toccanti in cui rivive il percorso a ostacoli contro tutti gli avversari incontrati nel suo cammino. Il calcio è una fede per Acerbi, ma il suo credo in Dio è quello che lo guida sempre: «Prego due volte al giorno, al mattino e alla sera. Ma non per questo sono diventato un santo. Di casini ne combino ancora, ma adesso grazie a Dio so chi sono».

Ha personalità da vendere Matteo Pessina, che dall’oratorio di Monza si porta dietro la cifra rara del 'doppio passo': prima del calcio viene lo studio. Latinista per passione il 'Gerrard' dell’Atalanta è iscritto alla facoltà di Economia della Luiss di Roma. Pessina, con Raspadori (studente alla facoltà di Scienze Motorie) seguono le orme dei veterani laureati, la roccia difensiva Giorgio Chiellini e il secondo portiere Salvatore Sirigu. Quest’ultimo, cresciuto a La Caletta di Siniscola (Nuoro) era partito giocando in attacco per la squadra dell’oratorio della chiesa della Madonna di Fatima che «miracolosamente », dice lui, lo ha trasformato in un portiere. Uno dei migliori portieri d’Europa che ancora rimpiangono al Paris Saint Germain. Mancini ha fatto entrare in campo Sirigu nella gara con il Galles (forse l’ultima in azzurro per il 34enne portiere del Toro) al posto di Gigio Donnarumma per far capire una volta di più che «in questa Nazionale, non ci sono riserve, sono tutti titolari». Ciò che conta è il gruppo, lo stare bene insieme nel reciproco rispetto dei ruoli impartiti.

L’abbraccio tra il ct della Nazionale Roberto Mancini e Gianluca Vialli

L’abbraccio tra il ct della Nazionale Roberto Mancini e Gianluca Vialli - Ansa

E dopo tanta sofferenza in campo la tensione si scioglie nell’abbraccio di fratellanza tra Mancini e Vialli che, dall’alto della sua esperienza di vecchio bomber azzurro e di hombre vertical, proclama in stile oratoriano: «L’importante non è vincere, è pensare in modo vincente: la vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede e per il 90 per cento di come lo affrontiamo».


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