venerdì 11 agosto 2017
Al festival di Salisburgo le due eccellenti messe in scena della "Lady Macbeth" del russo e di "Wozzeck" aprono squarci sul buio che avvolge l'umanità
Šostakovic & Berg, il suono del male
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Il male del (nel) mondo. Quello dell’uomo che si mette al posto di Dio. Dell’uomo che pensa di poter vivere senza Dio. Dell’uomo che (sembra) parlare solo il linguaggio della violenza, che è sopraffazione dell’altro e sfocia indifferentemente nell’omicidio o nella guerra tra popoli. Un uomo che soccombe. Senza (apparentemente) alcuna possibilità di speranza. Schiacciato da un male che fa ancora più paura perché non è netto, evidente, non è nero contro bianco. Ma serpeggia, si insinua nelle vite, lavora nell’ombra. E poi, improvviso, esplode.

Al Festival di Salisburgo va in scena il male raccontato in musica dal Novecento, Wozzeck di Alban Berg, Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovic. Storie di gente comune, quasi reportage di cronaca nera. Diretti, immediati, anche crudi. Come quelli raccontati nei programmi che oggi in tv collezionano ascolti. Senza nessun commento: quello è lasciato a chi ascolta. L’urlo che deflagra in orchestra alla fine della Lady Macbeth di Šostakovic ti fa sobbalzare sulla poltrona. Quasi ti risveglia da un’anestesia che ha fatto scivolare via tanto dolore. Lo sguardo è in alto, verso il balcone di cemento dal quale pendono, impiccati, i cadaveri di due donne: sono Katerina L’vovna e Sonjetka. Niente salto nel fiume, come indica il libretto di Alexander Preis e dello stesso Šostakovic, ma una fine più cruenta, la vuole il regista Andreas Kriegenburg. Lo sconcerto. Poi l’urlo che si spegne in un buio che lascia poco spazio alla speranza.

Come tante vicende che oggi la cronaca ci racconta. Perché quella immaginata dal compositore russo – colpito dalla censura del regime comunista di Stalin – è una storia terribile, di una donna borghese, un marito inesistente e un suocero ossessivo e tiranno, che si fa travolgere dalla passione per Sergej, passione che la porta all’omicidio: il suocero ucciso con veleno per topi, il marito strangolato e nascosto in cantina. Il male che deforma l’uomo. Che non riesce a rimanere nascosto. Scoperti i delitti Katerina e Sergej sono deportati in Siberia, ma lei si uccide, trascinando nell’abisso la nuova amante dell’uomo, che osserva la scena impassibile di fronte al male. Un racconto quello del regista Kriegenburg (da gennaio sarà lui a firmare il nuovo allestimento del Ring di Wagner alla Bayerische Staatsoper di Monaco con Kirill Petrenko sul podio) dove la realtà di una periferia industriale (la scena di Harald Thor ricostruisce scrupolosamente sul palco della Grosses Festpielhaus un complesso di palazzi dove le pareti di cemento armato si aprono e rivelano le stanze nelle quali la tragedia cova) si deforma (le luci azzeccate di Stefan Bolliger) apparendo come la vede la mente offuscata dei protagonisti, obliqua e sfuocata.

Perfettamente a fuoco, invece, la lettura musicale che sul podio dei Wiener Philharmoniker offre Mariss Jansons: il direttore lettone, in simbiosi con l’orchestra, crea una tensione che non viene mai meno, colora l’opera di tutte le sfumature della vita, il tra- gico, ma anche il comico. Nina Stemme è la trascinante protagonista, nei panni di una disperata e da subito sconfitta Katerina L’vovna, succube del Sergej di un convincente Brandon Jovanovich. Šostakovic urla. Grida il dolore del (nel) mondo. Alban Berg, invece, suggerisce un sentimento di pietà raccontando, per dirla con un termine di oggi, un femminicidio: pietà per Wozzeck che si affoga dopo aver ucciso la compagna Marie accecato dalla gelosia. Pietà per un’umanità che esalta e celebra la guerra. Sul palco dell’Haus fur Mozart Wozzeck ritrova la sua dimensione di opera da camera. Scene da una tragedia annunciata che, collegate da intermezzi sinfonici, meditazione su ciò che si è appena visto, sfumano cinematograficamente una nell’altra. William Kentridge nel nuovo allestimento in coproduzione con il Metropolitan di New York e la Canadian Opera Company (e sponsorizzato come la Lady Macbeth – proprio mentre il mondo ricorda i dieci anni dalla crisi finanziaria che ha travolto l’economia – dalla Bank of America Merril Lynch) mette sul palco un vecchio proiettore che su uno schermo fa apparire i suoi inconfondibili disegni, anatomie di un’umanità che poi prende forma in scena, sulle passerelle che evocano gli ambienti della vicenda tra cataste di sedie e armadi. Tutto è marcato, sottolineato, in scena dalle linee nette e dense dei disegni di Kentridge e in orchestra dalle pennellate di colore che un ispirato Vladimir Jurowski chiede ai Wiener.

Ma l’espressionismo di certe letture è lontano. Lascia piuttosto spazio alla poesia. Quella che il direttore d’orchestra trae dalla partitura, che suona lirica e a tratti sognante. E che il regista mette alla fine dello spettacolo quando il figlio di Wozzeck (un misurato Matthias Goerne) e Marie (un’efficace Asmik Grigorian), un burattino di legno mosso da infermieri e soldati che si aggirano sul palco con maschere antigas, spicca il volo verso il futuro cavalcando una stampella, unico residuo di una guerra che ha distrutto l’umanità. Guerra vissuta sulla propria pelle da Šostakovic, al quale il Festival di Salisburgo quest’anno dedica un ricco filone del cartellone: il 20 agosto Daniel Barenboim alla guida della West Eastern Divan Orchestra proporrà il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi con Marta Argerich alla tastiera e Bassam Mussad alla tromba mentre il 28 Simon Rattle dirigerà i Berliner Philharmoniker nella Sinfonia n.1 e nella Sinfonia n.15, pagina, quest’ultima, che il 19 risuonerà nella trascrizione di Viktor Derevianko per violino, violoncello, pianoforte e tre batterie.

Guerra di cui il compositore russo denuncia l’inutilità nella sua Sinfonia n.7 in do maggiore “Leningrado”. Pagina risuonata nel concerto dei Wiener con Andris Nelsons (e preceduta dalla trascinante esecuzione del Secondo concerto per pianoforte e orchestra di Sergej Prokof’ev proposta da Daniil Trifonov). Solenne e tragica. Ma capace di illuminare le macerie dell’umanità con una luce di speranza, quella dell’accordo degli archi che apre l’Adagio. Antidoto per l’anima al male del (nel) mondo.

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