sabato 2 settembre 2023
Possiamo prevedere l'evoluzione dell'intelligenza artificiale verso le caratteristiche più tipiche dell'essere umano? La Sicilia capitale degli incontri internazionali sul tema. Parla Pietro Perconti
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Le macchine digitali potranno essere coscienti? Saremo in grado di caricare, per così dire, la nostra mente su un computer? Domande che oggi sono diventate non solo di moda, ma anche molto concrete. E che coinvolgono aspetti concettuali ed etici di grande rilievo. Sui quali hanno titolo per intervenire soprattutto i filosofi. A questo scopo, la Summer Philosophical Schools 2023, tenutasi in agosto a Palermo, ha riunito affermati pensatori e giovani studiosi per discutere e analizzare il rapporto tra mente umana e intelligenza artificiale, con l'organizzatore del Center for Consciousness Studies (CCS). Promotore locale Pietro Perconti, professore di Filosofia della mente all’Università di Messina, che quest’anno ha reso la Sicilia centro mondiale degli studi sulla coscienza, essendo stato anche tra i promotori dell’edizione annuale del congresso internazionale sulla Coscienza TSC-2023, che ha fatto tappa a Taormina in maggio. Lo abbiamo intervistato su questi temi.

Pietro Perconti

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Professor Perconti, alla luce dei recenti sviluppi nell'Intelligenza artificiale (IA), soprattutto ChatGPT, ci si chiede se i sistemi computazionali artificiali potranno avere caratteristiche che gli esseri umani considerano essenziali, come coscienza, pensiero e personalità?

Dipende da cosa si ha in mente quando si impiegano queste parole e da quanto si voglia essere liberali nel loro uso. Gli scrupoli che abbiamo oggi nel riconoscere che i sistemi artificiali hanno una mente sono simili a quelli che negli scorsi decenni abbiamo avuto nei riguardi degli altri animali. Si tratta di uno scrupolo culturale, prima che scientifico. Attribuire una mente agli altri animali e poi alle macchine ci scalza dal ruolo centrale nella natura che pensavamo di avere. Nell’intelligenza artificiale la mente non è considerata come una caratteristica essenziale delle persone, ma come una architettura cognitiva astratta, che può essere implementata ovunque, negli esseri viventi come nelle macchine, purché vengano rispettati i requisiti formali del funzionamento previsti da quell’architettura cognitiva.

Da pochi giorni circola un paper scritto da un ampio numero di autorevoli studiosi - non ancora valutato da colleghi esperti, come si usa per la pubblicazione in riviste scientifiche - in cui si considera come potremmo individuare la coscienza in base alle diverse teorie oggi più in voga. Come esperto di coscienza (lei è stato organizzatore a Taormina dell'edizione 2023 del più grande convegno mondiale sulla coscienza), qual è la sua opinione?

L’idea alla base di quell’articolo è che la coscienza può essere studiata scientificamente e che quindi è possibile usare tali risultati anche nel campo dell’intelligenza artificiale. Gli autori hanno formulato un elenco di proprietà indicative derivate dalle principali teorie neuroscientifiche sulla coscienza e hanno concluso che, sebbene allo stato nessun sistema artificiale sia in grado di soddisfare tale elenco di proprietà, in linea di principio non ci sono ostacoli che nel futuro questo non possa accadere. L’avvento di una macchina capace di pensiero e consapevolezza sembra una questione di “quando” più che di “se”. Questo approccio al problema, inoltre, è basato su quello che sappiamo dalla neuroscienza sul modo in cui il cervello umano elabora le informazioni rendendoci creature consapevoli. Ma non possiamo escludere che in futuro una macchina possa raggiungere un risultato simile al nostro, magari utilizzando una architettura cognitiva diversa da quella impiegata dal cervello umano e producendo uno stile di consapevolezza diverso dal nostro. Dopo tutto, sappiamo che funziona così anche nel caso degli altri animali. Alcune specie, tra cui gli esseri umani, sono in grado di riconoscersi allo specchio e si è scoperto che nel farlo è coinvolta la neocorteccia del cervello. Gli uccelli sono privi di neocorteccia, anche se recentemente si è scoperta una sezione cerebrale, chiamata pallio, che svolge funzioni simili a quelle della neocorteccia nei mammiferi. Eppure, le gazze, d’altronde celebri per la loro intelligenza, sono in grado di riconoscersi allo specchio.

Se davvero ci sembrerà di vedere coscienza nell'IA, in che modo ciò influirà sulla nostra comprensione dell'esistenza? Abbiamo motivo di guardare a questo futuro con ottimismo?

Credo che le ragioni per essere ottimisti siano prevalenti. Mi rendo conto che una macchina consapevole potrebbe anche avere intenzioni malevole, che invece un semplice strumento – come un martello – non può avere in nessun caso. La storia, tuttavia, ha dimostrato che quello della “neutralità degli strumenti” è solo un mito. Si pensi alla invenzione della stampa, a internet o alla bomba atomica. D’altronde, si può anche ritenere che una macchina dotata di consapevolezza potrebbe anche essere “coscienziosa”, nel senso umano del termine, ossia riflessiva e prudente, al contrario dei semplici strumenti.

Transumanisti e tecno-entusiasti sostengono che caricare la mente e i suoi contenuti su un computer potrebbe portare all'immortalità di quell'individuo. Tuttavia, molti esprimono dubbi sulla possibilità di creare un computer pensante e trasferire esseri umani su macchine. Per chi non è esperto, può inquadrare il tema, che è stato oggetto di una innovativa scuola estiva che ha organizzato poche settimane fa a Palermo?

Il punto di partenza è la tesi, abbastanza comune nella scienza cognitiva, in base a cui la mente è un insieme di informazioni e che pensare equivale a elaborare delle informazioni. In effetti, abbiamo un mucchio di prove che considerando la mente in questo modo si ottengono risultati significativi. Intuitivamente, grazie al fatto che i contenuti sono informazioni, la nostra conoscenza si è espansa sulla rete. La semplicità con cui si reperisce l’informazione – mettiamo – sulla capitale del Ghana ha sollevato parecchie persone dallo sforzo di mandare l’informazione a memoria. In fondo, credono di disporre di quella informazione, se soltanto si lascia loro un attimo per recuperarla dal telefonino. Ma se le credenze, i desideri e l’intera vita mentale non sono altro che informazioni, allora tali informazioni possono essere raccolte in modo ordinato e caricate dove si vuole. Si può così fantasticare che un certo individuo possa essere trasferito, con tutti i tratti della sua personalità, su una macchina, e che magari possa sopravvivere alla consunzione del suo stesso corpo. Ma davvero la nostra mente è solo un insieme di informazioni indipendenti dal corpo?

A Palermo, lo studioso americano Eric Olson ha presentato argomenti da una prospettiva metafisica, affermando che gli esseri umani sono, in sostanza, animali umani - esseri materiali che non possono essere caricati su un computer. Ha sostenuto che: “È impossibile caricare una cosa materiale su un computer, così come è impossibile inviare per e-mail un mattone o un albero. Nella migliore delle ipotesi, in un lontano futuro, potremmo essere in grado di creare copie psicologiche elettroniche di noi stessi. Ma loro non saranno noi”. Può spiegare su che che cosa si basano queste affermazioni?

Con Eric Olson abbiamo condiviso l’esperienza della Scuola estiva e ho apprezzato le sue argomentazioni. Dopo tutto, egli sostiene, noi umani siamo una specie animale, oltre che degli oggetti fisici. Per essere caricati su un computer occorrerebbe essere semplici insiemi di informazioni. Ma le cose materiali sono diverse e pertanto non possono essere caricate su un computer. In effetti, secondo Olson non esiste affatto qualcosa come un “pensatore artificiale” perché dovrebbe trattarsi di un genere di cose simile ai software per computer. Un pensatore artificiale non sarebbe altro che una sequenza di istruzioni. Ma noi, i pensatori naturali, siamo un tipo di cosa diversa. Siamo individui, mentre i programmi sono “tipi” universali. Inoltre, se fossimo letteralmente una sequenza di istruzioni, allora dovremmo essere sempre la stessa sequenza, dalla nascita fino ad ora. Ma non esistono sequenze di istruzioni che siano costanti per sempre. Ed è logicamente impossibile essere una cosa in un momento e un'altra in un altro momento.

La sua posizione è invece che vi siano ragionevoli motivi per un ottimismo tecnologico. Tuttavia, lei solleva la questione nel contesto sociale: dovremmo avere paura dell'IA? Ci soggiogherà o lavoreremo insieme? Può spiegare come si articola questo approccio, anche con alcuni esempi?

Preferisco l’osservazione e il commento su ciò che succede nella scienza e nella tecnologia alle considerazioni di tipo metafisico, perché la scienza e la tecnologia sono cose storiche ed empiriche, non universali ed astratte. Il mio ottimismo tecnologico è suggerito dall’osservazione di quello che potremmo chiamare il “problema dell’altalena” e che si nota specialmente nel caso dei robot umanoidi, ossia quei robot che sono dotati di fattezze simili a quelle umane. Oscilliamo continuamente tra due sentimenti. Da un lato c’è la paura, con la tipica ossessione che le macchine un giorno si rivolteranno contro di noi, magari perché nel frattempo diventeranno intelligenti e dotati di autocoscienza. Dall’altro lato c’è il desiderio di schiavizzazione, ossia la volontà di usare i robot come semplici strumenti, a cui affidare compiti che noi desideriamo evitare. La terza via risiede nella collaborazione e consiste nel considerare i robot come se fossero agenti razionali, anche se in effetti lo sono solo in parte. È solo grazie a tale atteggiamento liberale che lo scenario della collaborazione diventa realmente possibile. Ed è soltanto grazie alla collaborazione che potremo raccogliere tutti i frutti della rivoluzione dell’intelligenza artificiale in un contesto che sia sicuro e che ispiri fiducia. Si pensi al caso dei robot che svolgono la funzione degli infermieri o di quelli dedicati all’accoglienza negli alberghi o nei ristoranti. Sono dotati di fattezze umane, sono in grado di sostenere una normale conversazione e si sono meritati la nostra fiducia in questioni personali come l’amministrazione della salute o l’affidamento di dati sensibili. Forse, invece che fantasticare di robot che ci si rivoltano contro, dovremmo sviluppare queste forme di interazione e di collaborazione in modi via via sempre più sicuri e sofisticati.

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