giovedì 11 dicembre 2014
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Nel libro "Tecnica curiosa" in libreria in questi giorni edito da Medusa (pp. 208, euro 22) l’architetto e storico Paolo Portoghesi, membro dell’Accademia dei Lincei e presidente dell’Accademia Nazionale di San Luca, raccoglie una serie di riflessioni sulle macchine e la loro storia. La civiltà macchinista, ispiratrice delle avanguardie storiche dell’inizio del XX secolo, è ormai un’etichetta obsoleta, ma i problemi dell’intelligenza meccanica, dell’automazione, della crisi ambientale sono all’ordine del giorno e pongono interrogativi sul futuro del pianeta. Il libro invita a riflettere sul modo discreto e fantasioso in cui la macchina è entrata in scena nel mondo antico e sulla sua graduale mutazione da oggetto funzionale al servizio dell’uomo in forza inesauribile di trasformazione e di cambiamento, fino ad acquistare la fisionomia di essere vivente capace di riprodursi e dotato di enorme potere sull’umanità. Anticipiamo alcuni brani dall’introduzione dove Portoghesi (foto), mette in luce le derive attuali della società tecnologica.
Una ciclica alternanza di illusioni e delusioni ha caratterizzato un decennio dopo l’altro la seconda metà del XX secolo e il primo decennio del XXI. Quando l’abbandono delle campagne e la rapida crescita urbana avevano accreditato l’ipotesi di un nuovo equilibrio sociale creato dalla piena occupazione, emergeva la tecnica dell’automazione che sottrae spazio al lavoro industriale e innesca un processo di crescita smisurata del terziario che si traduce nella elefantiasi della burocrazia e quindi nel rallentamento e talvolta nella paralisi del sistema produttivo. La globalizzazione dell’economia apre la speranza di una globalizzazione culturale che favorisca la comprensione e l’amicizia tra i popoli ma si rivela presto come un meccanismo che serve soprattutto alla ricerca della mano d’opera dal costo più conveniente e crea quindi una moltiplicazione dei trasporti con una parallela crescita dell’inquinamento e dello spreco di energia. Si dirà che questo alternarsi di speranze e delusioni non si deve allo sviluppo tecnologico e meno che mai allo sviluppo della intelligenza artificiale. Certo, si tratta di un processo di cui solo l’uomo è responsabile, ma il ruolo svolto dalla tecnica è decisivo; i progressi dei mezzi di trasporto, la loro inedita velocità, l’avvento dell’automazione industriale la diffusione dei meccanismi di autoregolazione producono trasformazioni radicali del sistema produttivo, mentre l’espansione dei media concorre paradossalmente a occultare i riflessi negativi della tecnica, magnificandone solo i successi. È la tecnica indubbiamente a fornire alla società e ai governi la possibilità di conoscere e misurare i processi in atto che condizionano la vita umana, l’inquinamento, lo spreco di risorse, i cambiamenti climatici, l’acuirsi delle differenze sociali, ma è la tecnica, attraverso i media a rendere possibile al potere politico e finanziario l’abile dosaggio delle informazioni o il loro occultamento.  Il computer è in grado ormai di descrivere ciò che sembrava impossibile prevedere, come le vicende meteorologiche. Le statistiche dipingono una terra che si impoverisce di risorse, e prevedono una serie di cambiamenti climatici indotti dal processo di riscaldamento dell’atmosfera. Infine si sta affacciando lo spettro del calo demografico. La popolazione mondiale che stava per raggiungere i dieci miliardi, ha smesso di crescere con i ritmi previsti anche nei paesi più poveri e le statistiche prevedono che tra trenta o quaranta anni si arrivi alla crescita zero. Insomma l’umanità sembra ormai costretta a chiedersi non solo se la terra sia disposta a sopportare ancora il peso della sua presenza; ma anche se vale la pena di mettere al mondo altri esseri umani. La donna, conquistata la piena coscienza dei suoi diritti, sembra meno propensa a soffrire da sola per popolare la terra. Due parametri appaiono particolarmente efficaci per denunciare il pericolo della terra desertificata e inabitabile: l’impronta ecologica e l’impronta del carbonio. La prima ci dice quanti pianeti terra servirebbero per soddisfare le esigenze dell’uomo futuro se continuasse per la strada della crescita infinita, e ogni anno ci rivela il giorno in cui, avendo l’umanità consumata tutta l’energia rinnovabile, è costretta a far ricorso alle riserve compromettendo il suo futuro. Questo giorno fatidico tende ogni anno a scorrere in avanti e ci fa capire che siamo orientati verso un avvenire incerto e temibile. L’impronta del carbonio misura l’aumento dell’anidride carbonica e quindi l’impoverimento progressivo della risorsa più importante: la qualità dell’aria che respiriamo. Poiché è principalmente l’eccesso di anidride carbonica che determina la crescita della temperatura ambientale e il suo maggior produttore è l’uomo, dal valore dell’impronta nel suo complesso dipende l’abitabilità della terra. Si tratta ovviamente di un indicatore di larga massima, ma non per questo meno significativo. Poiché è stata calcolata questa impronta per ogni atto umano, da quello di fumare una sigaretta a quello di fare figli o di fare un viaggio in aereo, è interessante conoscere qualche dato numerico indicativo. Attualmente l’impronta ecologica dell’intera umanità è di 50 miliardi di tonnellate all’anno, in Europa il peso è molto variabile. Per fare degli esempi: l’Italia pesa 583 milioni di tonnellate mentre il Regno Unito 862 milioni, la Francia 810, la Germania 1350. L’Islanda, invece, produce solo 4 milioni di tonnellate. Asentirlo dire sembra il catalogo di Papageno, che enumera le amanti di Don Giovanni, ma si tratta di una radiografia molto significativa, che va integrata con i dati del resto del mondo: 980 milioni il Brasile, 4300 la Cina, 1,5 per l’intera Malesia. La differenza tra Paesi ricchi e Paesi poveri è sotto questo profilo agghiacciante; si va da una emissione di gas serra per persona di 0,0015 del Pakistan e della Nuova Guinea, dai 0,0016 del-l’India, ai 0,0100 dell’Italia, ai 0,0123 della Germania, ai 0,0240 degli Stati Uniti, sedici volte il gas pro capite del Pakistan. Lo studioso Mike Berners-Lee ha cercato, nel libro  La tua impronta (2010), di interpretare questi dati in funzione dei rischi che il riscaldamento terrestre comporta di rendere la terra inabitabile. La conclusione a cui è arrivato è che i paesi più “progrediti” debbono cambiare stile di vita se vogliono sopravvivere, rallentando e se possibile invertendo il processo in atto prodotto dalle emissioni di gas serra. In modo prudente e realistico Berners-Lee propone come prima tappa di ridurre di almeno un terzo le attuali emissioni del Regno Unito arrivando a uno standard di 10 tonnellate annue di produzione di questi gas malefici. Come procedere per arrivare a questo obiettivo minimale? La ricetta è semplice: occorre consapevolezza rispetto a ciò che ciascuno di noi fa nella vita quotidiana. Per raggiungere questa consapevolezza il libro di Berners-Lee, con  sense of humour squisitamente britannico, ci offre una serie di cifre che riguardano le emissioni. Per produrre meno di dieci grammi di emissioni bastano un sms o una banana; meno di un chilo di gas produce l’acquisto di un quotidiano. Le emissioni di un’automobile che percorre un miglio variano molto: dai 400 grammi di una utilitaria a due chili e mezzo di un Suv. Un hamburger vale un chilo, un litro di benzina più di 3 chili, ma un chilo di riso può produrre fino a sei chili di gas. Passando ai grandi numeri, un volo di andata e ritorno da Londra a Hong-Kong produce 3,4 tonnellate di gas, una guerra 250-600 milioni di tonnellate che non è poco rispetto ai 50 miliardi di tonnellate prodotte attualmente dal mondo intero. Le cifre sono inquietanti e fanno capire che occorre una vera e propria rivoluzione. Mettere al mondo un figlio, secondo i calcoli di Berners-Lee vale un centinaio di tonnellate se sarà un bambino attento alle emissioni e 2.000 tonnellate se sarà un tipico rampollo di famiglia ricca con abitudini spenderecce. Premesso che i sacerdoti della tecnocrazia ci rassicurano garantendoci che il deficit di energie necessarie per continuare a vivere come viviamo potrà essere fornito dall’uso imminente dell’idrogeno, dell’acqua marina, dei vegetali che producono materia infiammabi-le, il dilemma è se affidarsi al cieco ottimismo di chi pensa solo a come continuare ad autodistruggersi o cambiare decisamente lo stile di vita della nostra società ripescando i valori dimenticati della giustizia, della eguaglianza di diritti e doveri e della solidarietà non solo verso i presenti ma anche verso le future generazioni. Forse occorre una conversione, un provocatorio rovesciamento di valori: dalla velocità alla lentezza, dalla crescita infinita per tutti alla crescita differenziata e alla decrescita (più o meno felice) per chi ha depredato fin troppo e continua a sprecare mentre altri mancano dell’indispensabile. Alla fin fine è proprio la macchina, il computer che è la sua ultima re-incarnazione, lo strumento che ci permette di capire cosa sta succedendo. Il monitoraggio non è forse il suo modo di ammonirci?
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