martedì 27 ottobre 2020
Di fronte ai drammi di questo mondo e agli insistenti fallimenti che incontrano i singoli credenti e la Chiesa tutta viene da chiedersi se nei fatti non siamo altro che dei perdenti
Il cardinale Giacomo Biffi in Piazza Maggiore a Bologna

Il cardinale Giacomo Biffi in Piazza Maggiore a Bologna - Giorgio Benvenuti/Ansa

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Nel quinto anniversario della morte del cardinale Giacomo Biffi, Samuele Pinna, sacerdote ambrosiano, e Davide Riserbato, entrambi docenti e teologi, propongono un libro sul pensiero dell’arcivescovo di Bologna Tutto liscio... come loglio? (Cantagalli, pagine 240, euro 19,90) di cui proponiamo l’ultimo capitolo che nel libro è pubblicato col titolo Perdenti o vincitori? ed è un testo inedito dello stesso Biffi. Nel suo complesso il libro non è però semplicemente una raccolta di testi, peraltro ben assortita, ma una tessitura di ricordi, di episodi e di scritti che consentono un approccio completo alla figura del cardinale: uomo, teologo, attento osservatore del nostro tempo oltre che prete e pastore.

In questo tempo squinternato, che sembra dare sempre più spazio al rifiuto del messaggio evangelico sostanziale e si compiace di contestare in tutti i modi la Chiesa Cattolica, il suo magistero e quasi la sua stessa esistenza, fa capolino talvolta nella nostra coscienza di credenti una domanda semplice e inquietante: noi cristiani, nella vicenda storica complessiva, siamo vincitori o siamo perdenti? Regola indubbia per vivere sicuri e soddisfatti è di stare per quel che è possibile dalla parte di chi vince. Gli italiani in genere conoscono bene questa norma furbesca e si sforzano di rispettarla. È un principio pratico che possiamo accogliere anche noi, con un’avvertenza però: che non si tratti di un vincitore temporaneo, destinato prima o poi alla sconfitta o almeno al superamento. Come canta il coro conclusivo del Falstaff di Verdi: «Ride bene chi ride / la risata final». Ma l’unico vincitore, ultimo e definitivo è il Signore Gesù. Ce lo ha assicurato lui stesso in una delle ore più dolenti e significative della sua avventura terrena: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo » (Gv 16,33: « tharsèite, ego nenìkeca ton còsmon »). E, dopo questa solenne dichiarazione, è andato incontro all’arresto, alla condanna, alla crocifissione, alla morte, alla Pasqua di risurrezione e di gloria: tutto questo costituisce la sua “vittoria”. È una vittoria che origina nel tempo, ma lo trascende, fino a diventare un evento “eviterno” (come direbbero i medievali), che segna e colma di sé tutti i momenti delle vicissitudini umane. Gesù è il trionfatore in assoluto, e il suo trionfo è anche il nostro trionfo.

Noi che aderiamo attraverso la fede al suo mistero ed entriamo nella sua comunione vitale diventiamo con lui, in lui, e per lui vincitori indiscutibili, vincitori non insidiabili, vincitori perenni. Perciò la Prima Lettera di Giovanni può scrivere: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (1 Gv 5,4–5). Che la nostra ultima sorte sia positiva e fausta e il nostro esito finale coincida, in Cristo, con un’apoteosi superiore a ogni nostra attesa è dunque cosa sicura: se ci manteniamo con sincera fedeltà in questa prospettiva, la nostra travagliata avventura di credenti che vivono in un mondo «tutto in potere del Maligno» (1 Gv 5,19) non mancherà mai di pace inte- riore e di gioia. Ma il convincimento dell’immancabile vittoria escatologica psicologicamente stride con l’esperienza dell’insuccesso e del decadimento che affligge qualche stagione, anche protratta, delle comunità cristiane. Sarà bene ricordare a questo proposito che il Signore non ci ha mai promesso una militanza terrena che fosse una continua marcia trionfale e una vita cristiana paragonabile a una passeggiata sotto i mandorli in fiore. Egli ha piuttosto moltiplicato gli avvertimenti contrari. Secondo Gesù il rapporto normale del mondo con la «nazione santa» (1Pt 2,9) – il “mondo”, cioè le forze politiche, le culture dominanti, le potenze della comunicazione – non è la comprensione, la simpatia, il dialogo; è la persecuzione: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome » (Mt 10,22). Ma la persecuzione, secondo l’ottica di Cristo, non è per noi una sciagura: è un modo di assimilarci alla croce del Redentore, e quindi una partecipazione alla sua esaltazione (Gv 12,32). «Chi non prende la propria croce e non mi segue non è degno di me» (Mt 10,38). Il martire, secondo la coscienza certa della Chiesa, espressa con chiarezza dalla liturgia, non è uno sconfitto, è un trionfatore, perché ha attuato nella forma più perfetta l’imitazione di colui che «ha vinto il mondo».

È innegabile però che noi siamo tentati di tristezza quando ci troviamo alle prese con quello che ci sembra un declino del cristianesimo. Ma questo declino in effetti non c’è e non ci può essere, per la stessa autentica e indeformabile natura della realtà cristiana. Noi siamo destinati a trionfare perché siamo schierati col “Signore della storia”. Il Crocifisso Risorto è il “Signore della storia” non solo perché la storia universale approderà ai suoi piedi e riconoscerà il suo dominio assoluto: è il “Signore della storia” anche perché egli è in grado di intromettersi in forma eccezionale nelle nostre vicende e può sempre capovolgere a favore dei credenti le situazioni che si dimostrano più disperate. Ci rimane un’ultima annotazione che aiuti la nostra fiducia e la nostra gioia, pur nelle circostanze più difficili della vicenda ecclesiale. Nella Lettera agli Ebrei c’è una parola singolarmente intensa e illuminante: «Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre! » (Eb 13,8). Quel Gesù che colma di sé l’intero percorso dei figli di Adamo e gli dà senso (“ieri”) e che vive e regna nell’eternità alla destra del Padre (“per sempre”), non si è reso latitante dai giorni incerti e inquieti nei quali ci tocca di vivere quaggiù (“oggi”). Non ci ha lasciati soli: continua a essere possente e attivo in mezzo a noi. Nessuna potenza mondana riuscirà mai a intimidire la “nazione santa”, che sa di avere con sé il «Signore delle schiere». Nessuna nostra fiacchezza riesce ad avvilirci, se non ci dimentichiamo che cammina con noi colui che assume le cose deboli per confondere le cose che sembrano forti (1 Cor 1,27). Nessuna apparente infecondità del nostro lavoro e del nostro servizio può farci cadere le braccia, se rimaniamo consapevoli che il Risorto, realmente presente nei nostri raduni e nelle nostre celebrazioni continua a diffondere la divina energia; un’energia capace di raggiungere nelle forme più insperate gli animi di chi pare remotissimo da lui e da noi, e di insinuarsi pur nelle coscienze che riteniamo impermeabili.

Il cristiano che si lascia permeare da questa visione delle cose acquista la consapevolezza di essere il soggetto e il beneficiario di una comunione trascendente, che coinvolge il cielo e la terra. Si tratta di una “comunione cosmica”, nella quale entrano, con le Tre Persone divine, la Vergine Maria, le schiere degli angeli, tutti i figli di Adamo a misura che lo Spirito Santo ha suscitato in essi una docile risposta all’amore del Padre; e anzi ogni altra creatura a misura che è stata resa “sacra” dallo stesso Spirito. Il non percepirsi più come un frammento, recluso nella sua finitezza e impaurito dalla sua provvisorietà, e il sentirsi invece rassicurato e dilatato in questa “totalità” è per l’uomo la scoperta della sua fortuna e della sua inalienabile vittoria. Così, sedato nelle sue inquietudini e spiritualmente arricchito, egli è collocato in uno stato di iniziale felicita, che raggiungerà la pienezza nella contemplazione disvelata della vita eterna. San Paolo si è appassionato come nessun altro alle alterne vicende delle sue amate comunità e ci ha confidato più volte l’amarezza e la sofferenza per i suoi insuccessi apostolici. Eppure, non ha mai dubitato della sua invincibile condizione di “vittorioso”. A lui che, nell’esprimere il suo ottimismo sulla nostra sorte, non ha esitato a ricorrere a un vocabolo del tutto inconsueto, vogliamo riservare l’ultima parola: «In tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,37: ypernicòmen [noi stravinciamo]).

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