martedì 1 settembre 2009
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Pubblicato 25 anni fa in edizione quasi «clandestina», il poderoso «Iota unum» del filosofo ticinese gode oggi di ben due ristampe. Così il classico più citato dal tradizionalismo «non lefebvriano», amato da Del Noce, Zolla e don Barsotti, può essere finalmente messo alla prova di un’effettiva lettura, senza censure. Resisterà il suo «mito»?Una critica troppo letteralista. E così si perde il senso della realtàdi Roberto BerettaAnche i miti, a volte, deludono. Càpita infatti che s’attenda di conoscere un testo, del quale si è sentito lungamente parlare ma su cui non si è mai riusciti a mettere le mani: complice anche l’edizione rara in cui era stato stampato, 25 anni fa. Succede che il suo evocativo titolo latino venga spesso citato come «summa» di un pensiero alternativo e alto, allo stesso tempo non progressista ma nemmeno del tutto lefebvriano, sulla Chiesa post-conciliare. Insomma, avviene che una serie di addendi – il mistero, la rarità, le referenze, la sobrietà di notizie sull’autore – congiuri ad aumentare l’aura intorno a quel volume quasi fosse riservato a una scarna congrega di privilegiati o addirittura iniziati, accrescendo quindi l’appetito dei curiosi. Poi d’un tratto accade che di Iota unum si stampino non una ma due edizioni (Lindau e Fede & Cultura) e dunque diventi facilmente disponibile quell’imponente «studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX» che il filosofo ticinese Romano Amerio pubblicò nel 1985, dando voce a un tradizionalismo ritenuto colto e documentato: proprio quello che vari lettori si aspettavano di trovare nelle ristampe odierne. E invece il sogno svanisce all’alba, non appena cioè si alza il sole di un’effettiva conoscenza. Iota unum (e ancor più il suo seguito Stat veritas, 55 chiose all’enciclica Tertio millennio adveniente di Giovanni Paolo II) è in larga parte una delusione, e non solo perché non riesce a tener testa al suo stesso mito – alimentato peraltro da personalità come Cristina Campo, Elemire Zolla, Augusto Del Noce. Adesso che si può leggerlo, lo Iota appare proprio uno iota: una critica cioè «piccola» nel suo giuridicismo e letteralismo, che estrapola singole frasi dal contesto per trarne conclusioni teologiche generali e assolute; secondo un metodo di dissezione dei particolari che – proprio nella sua apparenza di oggettività analitica – conduce invece a perdere di vista il panorama globale, con esiti paradossali di incomprensione. Non si vuole qui esprimere un giudizio «ideologico», la solita solfa sulle idee anticonciliari di Amerio (che pure potrebbero condurre al sedevacantismo: l’accusa d’illegittimità dei Papi dopo il Vaticano II...); quanto di manifestare un’autentica delusione: se colui che scomunica lo sport e non ama che la vita sia presentata ai giovani come gioia; se chi condanna i consigli pastorali (e altri organi collegiali nella Chiesa) e disapprova l’impegno cristiano per lo sviluppo dei popoli; ebbene, se costui è «il pensatore più attuale e vivificante del momento... molto costruttivamente cattolico», come scrive Enrico Maria Radaelli nella postfazione Lindau, abbiamo atteso tanto per... poco. Beninteso: nelle 736 pagine dello Iota ci sono ovviamente idee e intuizioni interessanti o condivisibili o addirittura necessarie, soprattutto in tempi di furiosa contestazione e scriteriata «novità» come furono quelli del post-concilio. Ma il modo di procedere del libro risulta nel complesso formalistico; la scelta delle fonti mescola documenti ufficiali a brani giornalistici (e spesso del quotidiano di Lugano, dove lo studioso viveva, o al massimo di ambiente francofono); il famoso «rigore analitico» si applica a casi molto particolari, per esempio deducendo la crisi della Curia romana dal fatto che in un discorso Paolo VI abbia citato un inesistente «Ottavio di Mileto» anziché «Ottato di Milevi»... Insomma, un continuo mettere i puntini sugli i (o sugli... iota) che sarà anche meritorio, ma alla fine tradisce la realtà nelle sue sfumature, genera dogmi non necessari e paradossalmente non coglie la «verità» profonda delle cose, tanto meno del Vaticano II. E questo, per un cultore della «verità cattolica» come Amerio, non è difetto da poco.
Ma la tesi resta forte: il Vaticano II non ha affatto rotto col passatodi Cesare CavalleriAveva diritto a un risarcimento il filosofo e teologo Romano Amerio che nel 1985 pubblicò il suo Iota unum e fu tacciato di anticonciliare, passatista, addirittura lefebvriano. Adesso che il ponderoso volume è disponibile addirittura in due edizioni (Lindau e Fede & Cultura), si può riflettere più serenamente non solo sulle questioni sollevate da Amerio, ma anche su tutto il periodo postconciliare. Lo «sdoganamento» di Amerio corona gli sforzi e la cocciutaggine del suo fedele discepolo Enrico Maria Radaelli, il quale, incoraggiato anche dal filosofo dell’Università Lateranense Antonio Livi, pubblicò nel 2005 un profilo del maestro ticinese, favorevolmente recensito dalla Civiltà cattolica nel 2007. L’Osservatore romano, che nel 1985 non aveva pubblicato la recensione favorevole a Iota unum redatta dal prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Angelo Paredi, nel 2007 ha riservato ampio spazio al convegno indetto per il decennale della morte di Romano Amerio, pubblicando integralmente l’ampia relazione conclusiva di monsignor Agostino Marchetto. E qui tocchiamo un primo merito di Amerio, cioè di contrastare l’interpretazione del Vaticano II come discontinuità, svolta, rottura con la tradizione, quasi che da esso fosse nata una Chiesa diversa da quella fondata da Cristo. È questa la tesi sviluppata nei cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II elaborata dall’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, animato da Dossetti, Alberigo e Melloni (in ordine decrescente di statura), tesi che monsignor Marchetto, non solo nel convegno su Amerio ma anche in ponderosi volumi, ha saputo smantellare, con soddisfazione dell’Osservatore. Dunque, Romano Amerio è innanzitutto indomito paladino della continuità della tradizione, dalla consegna delle chiavi a Pietro fino alla fine dei tempi, attraverso tutti i Concili finora celebrati e quelli che seguiranno in futuro. Si tratta, per dirla coi classici, dello «sviluppo omogeneo del dogma». Un secondo punto a favore di Amerio lo possiamo sintetizzare con le parole che un suo sincero estimatore, don Divo Barsotti, ebbe a scrivere in tempi non sospetti: «Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità». Amerio dimostra che il dialogo non può essere separato dall’annuncio, allo scopo di favorire la libera conversione dell’interlocutore; che una pastorale valida non può non essere teologica, e che una teologia valida non può non avere un ancoraggio metafisico. È quanto ha sostenuto monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga-Imperia, nel profilo di Amerio appena pubblicato su Studi cattolici. È chiaro che il primato della verità sulla carità va inteso in senso ontologico, non cronologico, dato che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono coeterni e coessenziali. Nella pratica ascetica, dottrinale, pastorale, sociale, tutto si tiene, come indica Benedetto XVI nella Caritas in veritate segnalando «il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della veritas in caritate (Ef 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità». Iota unum, che si presenta con una certa dispersione analitica, va interpretato alla luce di questo criterio unificante, peraltro senza l’esagerazione di presentare Amerio come nuovo san Tommaso.
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