venerdì 28 gennaio 2022
Massimo Salvadori dedica il suo ultimo libro a chi manipola o demolisce questo studio necessario per capire il futuro E attacca i fautori della “cancel culture”
La statua del generale confederato Albert Pike abbattuta a Washington

La statua del generale confederato Albert Pike abbattuta a Washington - Epa/Samuel Corum

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Che le materie umanistiche siano sempre più bistrattate dalla scuola italiana non è una novità. Molti ricorderanno la brillante idea dell’allora ministro Berlinguer di abolire il liceo classico perché insegnava discipline ritenute inutili come il greco e il latino. Fra le materie più bistrattate c’è certamente la storia. Che il suo ridimensionamento a vantaggio delle discipline tecnico-scientifiche sia insomma un dato acquisito, e più in generale che si considerino materie come la letteratura e la filosofia e persino la geografia una componente secondaria della cultura, è una tendenza che è stata spesso denunciata negli ultimi anni da illustri accademici, ultimo dei quali lo storico Massimo L. Salvadori.

Nel pamphlet In difesa della storia (Donzelli, pagine 168, euro 18) compie una vera e propria apologia della disciplina. Fare i conti con la storia è inevitabile per comprendere quali vie seguire oggi tenendo conto degli errori del passato: è questo l’ammonimento che viene dalla lettura di questo dinamico saggio, che tocca vari punti legati al concetto di storia, a partire dalla possibilità che essa abbia un senso e una direzione, dall’idea di progresso, dalla necessità di ampliarne spazi e metodi come ci ha insegnato la Scuola delle Annales e come hanno fatto gli studi della cosiddetta “storia del mondo”, fino ai fenomeni più recenti della cancel culture che ripropone nuove forme di intolleranza mettendo alla gogna tutto il passato.

A proposito del “senso della storia”, Salvadori giustamente rileva come con questa espressione possano intendersi due concetti diversi: il primo riguarda il significato che si può attribuire alla storia in quanto branca del sapere, il secondo investe invece la direzione che ha avuto in passato e continua ad avere lo sviluppo umano. Vale a dire se esso volge in positivo o in negativo, se prevale l’idea di progresso o di decadenza. Salvadori ricostruisce le varie opinioni di studiosi del passato, dal possibilismo di Kant al pessimismo di Hegel (per il quale la storia è un “banco da macellaio”) e Burckhardt, fino alla visione più propensa a considerare prevalenti le luci sulle ombre dello storico contemporaneo Edward H. Carr, autore del famoso saggio Sei lezioni sulla storia (1961), il quale reagiva all’“ondata di scetticismo e disperazione” dei suoi colleghi. Dopo la tragedia dei due conflitti mondiali, una visione non ottimistica prevaleva fra gli studiosi. In queste discussioni che da sempre dividono gli storici, s’impone la prospettiva più alta della filosofia della storia, e finanche della teologia della storia, il cui primo esempio è La città di Dio di sant’Agostino.

Su questo punto il libro di Salvadori preferisce sorvolare, ed è un peccato. Basti pensare a un volume che su questo aspetto è considerato essenziale, Il senso della storia di Nikolaj Berdjaev, filosofo russo fuggito dall’Urss nel 1922 per riparare in Francia, dove è divenuto un punto di riferimento importante per tanti intellettuali. Prima di giungere a Parigi, a Berlino nel 1923 pubblicò l’opera che l’avrebbe reso famoso. «La storia – sosteneva – in quanto grandissima realtà spirituale non è un dato empirico, semplice, materiale di puri fatti: fosse così, la storia non esisterebbe e non sarebbe possibile conoscerla. La storia viene conosciuta dalla memoria storica, la quale è un’attività spirituale. Solo in un processo di spiritualizzazione e trasfigurazione della memoria storica si schiarisce il nesso interiore e l’anima della storia».

Nel saggio è contenuta anche una delle prime formulazioni della critica all’idea di progresso, soprattutto a partire dal Rinascimento e dall’Illuminismo e dalla modernità, sino al comunismo, di cui aveva sperimentato la disumanità, denunciando gli orrori di un regime e di un’ideologia che pure prometteva la liberazione dell’umanità. Anche Salvadori cerca di ripercorre a suo modo queste strade, come accennato con una visione più politica che filosofica, prendendo atto per esempio di quella che Furet chiamò “la grande illusione” rappresentata dal marxismo e dal comunismo. In questo quadro egli dedica un capitoletto sull’arte ingannevole della previsione, soprattutto di chi si trova ai vertici del potere che così descrive: «Si atteggiano a manovratori dei binari su cui fare correre il treno della storia nella direzione voluta, subendo continue brucianti smentite».

Ma il capitolo più attuale e davvero luminoso è quello dedicato alla “cultura della cancellazione”, una moda imperante specialmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito animata da minoranze operanti in università e case editrici. Essi si ritengono «portatori di valori progressisti» e hanno lanciato «una crociata di riparazione morale nei confronti di quanti malamente calpestati dai capitoli della storia scritta da un potere iniquo: gli schiavi, gli emarginati, insomma le vittime nelle loro molteplici forme». Ma per quanto queste intenzioni possano essere ritenute buone, si finisce come spesso nella storia per ripristinare l’indice dei libri proibiti, per censurare le biblioteche e per abbattere statue. Pratiche proprie dei regimi totalitari o dei fondamentalismi islamici. Dinanzi a questi zelanti censori, Salvadori invoca il ritorno alla razionalità: «Se si consentisse loro di raggiungere gli scopi che perseguono, il risultato sarebbe di fare delle storie di tutte le nazioni, nessuna esclusa, un cimitero culturale».

La legittima volontà di non dimenticare macchie ed elementi negativi di persone e culture del passato non deve portare ad atteggiamenti iconoclasti, ma a un civile e ragionevole confronto: «ssumere un atteggiamento moralisticamente aggressivo nei confronti del passato produce uno sterile, pericoloso irrazionalismo che snatura il processo della conoscenza sottoponendolo alle sentenze emesse da un tribunale tanto ripugnante quanto infruttuoso».

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