martedì 3 gennaio 2023
La popolarità di tecniche meditative su basi new age pone quesiti economici e culturali oltre che ai fedeli in Cristo
Ecco perché la mindfulness può interpellare i credenti cristiani

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In Occidente, viene sempre più diffondendosi il fenomeno della disaffezione nei confronti delle storiche tradizioni religiose. In tal senso, si è parlato di recente dei “none”, cioè di quanti sostengono di non avere alcuna appartenenza religiosa. Allo stesso tempo, si assiste alla rapida affermazione di pratiche individuali e comunitarie, incentrate sul perfezionamento interiore, la crescita personale e la meditazione. Si tratta di tre aspetti riconducibili alla cosiddetta mindfulness ( consapevolezza interiore, piena coscienza), che oggi tra corsi online, workshop, riviste può contare su un’industria di settore stimata in 4 miliardi di dollari e su un mercato editoriale di 60 mila libri. Interpretare le pratiche della “consapevolezza interiore” nel segno delle tradizionali categorie della spiritualità sarebbe inappropriato oltre a essere rifiutato, con ogni probabilità, dagli stessi praticanti. Anche per questo, in genere, si preferisce rubricare la mindfulness all’interno della new age. In realtà, in tale iscrizione agisce un sottile intento denigratorio. Nel movimento della new age, infatti, inizialmente diffuso negli anni Sessanta per riferirsi a forme di contro cultura spirituale, sono poi confluite una costellazione di idee e atteggiamenti di dubbia coerenza, quali la medicina alternativa ed il mesmerismo, l’astrologia e l’occultismo, lo sciamanesimo e la cristalloterapia, solo per citarne alcune. Va sicuramente riconosciuto come la mindfulness non sia scevra da possibili critiche. Sostenendo che tutto ciò che dobbiamo fare è chiudere gli occhi e osservare il nostro respiro, essa di fatto diviene una nuova religione del sé. Inoltre, l’insistenza su consapevolezza individuale, attenzione non giudicante e resilienza, rischia di vincolare i praticanti al modello economico-sociale neoliberista che ha prodotto quei problemi da cui essi vorrebbero affrancarsi. Per questo, come ha sostenuto Ronald Purser sul “The Guardian”, «i sostenitori della mindfulness, forse inconsapevolmente, sostengono lo status quo». In tale scenario, se le trasformazioni della morfologia della spiritualità contemporanea sembrano difficilmente contestabili, concentrarsi soltanto sui limiti della mindfulness appare come una strategia eccessivamente difensiva, che peraltro rischia di farci sfuggire la comprensione delle ragioni alla base della sua affermazione. Una questione su tutte dovrebbe interpellare i credenti: come mai, quando si tratta di stabilire le parentele della mindfulness o di risalire alle sue radici si fa quasi esclusivamente riferimento alle religioni orientali? Non si intende, ovviamente, contestare tale ascendenza: non c’è dubbio, infatti, che esistano connessioni con il buddismo, solo per esplicitarne una. Tuttavia, non suona un po’ sospetto il silenzio nei confronti del cristianesimo che in materia di ascesi, perfezionamento interiore, vita contemplativa non è secondo a nessuno? Davvero in materia di esercizi spirituali si può ragionevolmente ritenere irrilevante quanto la tradizione cristiana ha messo a punto? Tali “dimenticanze” andrebbero interrogate a fondo non potendosi escludere che esse rinviino a una presenza poco incisiva dei cristiani nel mondo. Alcuni anni fa, come molti ricorderanno, per definire lo stile di presenza dei cattolici nella società, si era fatto ricorso alle due categorie di presenza e mediazione. Si trattava di stili complementari: ai fini dell’inculturazione della fede, il cristianesimo della presenza era principalmente orientato all’affermazione dell’identità cristiana mentre il cristianesimo della mediazione insisteva sul valore del dialogo. Se oggi il combinato disposto dei due stili appena richiamati è rappresentato dall’ininfluenza riservata al cristianesimo, come appunto confermato dalle emergenti forme di spiritualità, siamo sicuri che non sia giunto il tempo per rivedere lo stile di presenza dei cristiani nella società e nella cultura? Si avverte il bisogno di una nuova “testimonianza attiva” che, nel recuperare il meglio dei due precedenti stili, sappia riferirsi senza remore alla parola “efficacia”, nel senso conferitole da Simone Weil quando osservava che « Niente di ciò che è inefficace ha valore». La speranza è che la nuova postura della testimonianza attiva contribuisca ad aggirare quella marginalizzazione in cui si vorrebbero confinare i cristiani, restituendo centralità alla Buona Novella che a essi è affidata.

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