L’esposizione a rischi ambientali o le risposte a particolari stress possono cambiare nelle popolazioni umane. Nelle nostre latitudini le popolazioni africane melanoderme (di pelle nera) sono maggiormente esposte ai rachitismi a causa della minore irradiazione solare. Gli afroamericani mostrano diversità di risposte ai farmaci ipotensivi. Gli asiatici presentano una diversa sensibilità agli effetti dell’alcool a causa di variazioni nella funzionalità epatica. Si affaccia una farmacopea razzaspecifica, sulla quale si stanno muovendo interessi economici su scala mondiale, tenendo anche presente il fenomeno migratorio massiccio che caratterizza il nostro continente. Dunque si può parlare di medicina razziale?Il problema è stato dibattuto in occasione del congresso dell’Associazione degli Antropologi Italiani, tenutosi nei giorni a scorsi a Bologna, in una tavola rotonda in cui è stata affrontata la vecchia questione della razza nella specie umana con la partecipazione di vari studiosi: Luigi Capasso e Giovanni Destro Bisol (antropologi), Guido Barbuiani (genetista), Antonio Panaino (storico), Antonio Nicolucci (farmacologo), interagendo con l’assemblea degli antropologi presenti.Per la verità il termine «razza» è stato rigettato da tempo dagli antropologi. Mutuato dalla zoologia, il termine non è applicabile all’uomo per la sua inconsistenza scientifica, a parte i gravi abusi sul piano politico a cui ha dato luogo nella storia recente. Tutti sono d’accordo su questo. Nel 1950 una dichiarazione dell’Unesco su
Race and Science invitava a non usare il termine razza umana e proponeva in alternativa il termine «gruppo etnico», che però ha una valenza soprattutto culturale.Certamente non ha alcun senso parlare di razze umane, come di unità biologiche definite, data anche la variabilità continua di molti caratteri antropologici, per cui diventa artificioso ogni tentativo di raggruppamento. La mescolanza genetica e le facili comunicazioni fra i gruppi umani tolgono ogni base scientifica a possibili classificazioni razziali che, in ogni caso, restano soltanto convenzionali. La genetica di popolazioni umane mette in evidenza un pool genico comune, con variazioni soprattutto quantitative nelle costellazioni e nella incidenza dei vari caratteri, dovute a mescolanze fra popolazioni e, in parte, a fenomeni di adattamento.Su questo tutti gli antropologi sono d’accordo. Ciò non significa che non vi siano differenze fra le popolazioni umane, dovute a svariati fattori di ordine genetico e ambientale. Lo studio di queste variazioni rappresenta l’oggetto specifico dell’antropologia fisica. È la biodiversità umana, di cui si cercano i vari fattori, tra i quali emergono, accanto a quelli genetici, i fattori di ordine ambientale e culturale. Nessuno può negarla, anche se rispetto al pool genico si tratta di variazioni minime, che però si fanno più evidenti quando riguardano caratteri macroscopici, come il colore della pelle o i capelli o la forma della faccia.Le cose si complicano se le piccole variazioni riguardano alcune funzioni dell’organismo (ad esempio l’assorbimento dei raggi solari per la formazione della vitamina D nella pelle o le risposte a farmaci ipotensivi). Eventuali differenze di funzionalità corporee (per il fegato, per l’apparato circolatorio) acquistano maggiore importanza in relazione al fenomeno migratorio massiccio verso l’Europa dall’Africa subsahariana e dall’Est asiatico. Né possono essere ignorati gli interessi economici che sono in gioco per le case farmaceutiche.Si affaccia allora per la medicina e la farmacopea l’utilizzazione dell’aggettivo «razziale», che si pensava fosse esorcizzato definitivamente? Gli antropologi restano contrari. Si rende necessario inventare o utilizzare altri termini: popolazioni o gruppi etnici: caucasici (o europoidi), melanodermi (di pelle scura), est-asiatici, mongoloidi.... Ma con i progressi della scienza c’è anche chi avanza l’idea di una medicina e una farmacopea individualizzate. Una prospettiva poco praticabile sul piano finanziario.