sabato 22 luglio 2023
Un conto è promuovere il rispetto, un altro è imporre nuove forme di iconoclastia. Il saggio di Davide Piacenza
Sandra Oh e Jay Duplass nella serie “The Chair”, che tratta anche il tema della “cancel culture”

Sandra Oh e Jay Duplass nella serie “The Chair”, che tratta anche il tema della “cancel culture” - Netflix

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Incontrando i leader politici canadesi un anno fa a Québec, papa Francesco ha rinnovato il senso di “vergogna” e “dolore” per il comportamento di alcuni membri della Chiesa nei confronti degli indigeni in passato, ma ha al contempo denunciato la cancel culture all’opera oggi. La mentalità colonialista di un tempo che «trascurava la vita concreta delle persone imponendo modelli culturali precostituiti», ha lasciato il posto a «colonizzazioni ideologiche che soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, cercando di sradicare tradizioni, storia e legami religiosi ». Una colonizzazione che il Papa ha definito appunto « cancel culture, che valuta il passato solo in base a certe categorie attuali». Numerose volte Bergoglio ha criticato la mentalità ideologica che ancora pervade il nostro tempo – si pensi alla questione del gender - ma mai aveva usato questa espressione, che caratterizza un dibattito cristallizzato in Usa e Regno Unito ma in Italia non ancora esploso.

Per fortuna, verrebbe da dire, dato che si tratta di una tendenza che tende a colpire molti elementi del nostro passato denigrando persone ed opere e pretendendone la cancellazione appunto. Di questa nuova forma di guerra culturale ci parla un saggio di Davide Piacenza, molto ben articolato e documentato, da poco pubblicato da Einaudi col titolo La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata (pagine 316, euro 16,50). L’autore, che non a caso pubblica online la newsletter “Culture Wars”, enumera una serie di esempi, a volte giustificati a volte allucinanti, della moda imperante nel mondo anglosassone, che impazza in università e case editrici. La sua è al fondo un’azzeccata analisi del fenomeno, soprattutto quando denuncia come la lotta contro la cancel culture sia divenuta un vessillo della destra conservatrice, che ne approfitta per mettere a tacere le giuste rivendicazioni delle minoranze. Una destra, non solo americana, che accusa la sinistra di essere «diventata una massa indistinta di invasati che vogliono distruggere l’Occidente, o almeno privarlo dei suoi classici, perché esiste una dittatura woke che domina le nostre vite e vuole privarci di ogni libertà di espressione duramente conquistata».

Ma se Piacenza bene mette in luce questa linea di pensiero che pervade il mondo trumpiano e non solo, dall’altra riserva dure critiche alla cultura progressista, perlopiù appiattita sulle posizioni dei “professionisti della correttezza”. Per cui si assiste a veri e propri paradossi: per non essere accusati di islamofobia si tace sulle violenze contro le donne nei Paesi arabi. Come si esce da questa polarizzazione che fa vittime non solo di monumenti ma finisce per cacciare dall’insegnamento molti docenti che si sono limitati a esprimere il loro pensiero? Con il buon senso, la capacità di fare distinguo, una corretta prospettiva storica. Piacenza, che scrive senza paraocchi ideologici e cita Eliot e Auden come profeti delle odierne discrasie, commenta: « Promuovere un ambiente più rispettoso, aperto alle differenze e orientato all’inclusione sociale, dovrebbe essere la base su cui costruire un progetto di crescita e educazione. Però questo fine encomiabile mal si sposa con un modus operandi che ha fatto del sospetto reciproco e dell’abdicazione alla mentalità del gregge i suoi fari».

La cultura della cancellazione si rivela «l’antitesi della carità », come l’ha definita il cantante Nick Cave. La legittima volontà di non dimenticare macchie ed elementi negativi di persone e culture del passato rischia di portare a nuove forme di iconoclastia. I sostenitori di queste rivendicazioni, per quanto esprimano in molti casi intenzioni buone, finiscono per voler ripristinare l’indice dei libri proibiti, per censurare le biblioteche e per abbattere statue. Pratiche proprie dei regimi totalitari o dei fondamentalismi. Il processo, come accennato, riguarda un po’ tutta la cultura occidentale, in particolare l’eredità ebraico-cristiana, aggiungiamo noi. Come ha scritto lo storico Massimo L. Salvadori nel pamphlet In difesa della storia. Contro manipolatori e iconoclasti (Donzelli): «Se si consentisse loro di raggiungere gli scopi che perseguono, il risultato sarebbe di fare delle storie di tutte le nazioni, nessuna esclusa, un cimitero culturale».

Aristotele e Cristoforo Colombo, Shakespeare e Voltaire, Mozart e Beethoven sono considerati retrogradi e razzisti e si giunge a vietare nelle scuole di lettura capolavori come Uomini e topi di Steinbeck e Il buio oltre la siepe di Harper Lee, il primo ritenuto irrispettoso verso gli afroamericani, il secondo espressione del paternalismo bianco. Per non parlare della letteratura per l’infanzia: si invoca la messa al bando di Biancaneve, che il principe bacia senza che la fanciulla abbia espresso il suo consenso, e di Harry Potter, solo perché l’autrice J.K. Rowling è stata ingiustamente accusata di transfobia. Una serie di Netflix, The Chair, ha per protagonista l’attrice Sandra Oh che diventa la prima direttrice donna del dipartimento di Letteratura inglese di un’università americana e si trova a combattere tra il vecchio establishment e i docenti più giovani, sostenuti dagli studenti, che chiedono ulteriori cambiamenti. In questo caso però la lotta non è affatto tra conservatori e innovatori, come ha sostenuto Francesca Coin su “Internazionale”, ma fra senso e non senso, fra equilibrio e follia.

Buttare al macero Chaucer, Melville ed Eliot per introdurre nuovi autori più sensibili a eguaglianza fra i sessi e antirazzismo, come chiedono i giovani qui rappresentati, significa accettare lo svilimento della cultura. Il processo che viene imbastito nei confronti di un docente perché durante una lezione fa il saluto nazista per farsene beffe e viene preso sul serio dà l’idea del ridicolo cui questo trend può condurre. Guardiamo al caso della scrittrice Flannery O’Connor, una delle voci più alte della letteratura americana, che ha subito di recente un processo per razzismo…

Come se la vita e l’opera di un autore non debbano essere contestualizzate. Non si tratta certo di accettare le discriminazioni etniche e religiose che ancora sono ben presenti particolarmente in Usa, ma il politicamente corretto imperante che ha portato alcuni atenei a cancellare l’insegnamento di greco e latino e a ridimensionare l’apporto della cultura e della letteratura europea è veramente insopportabile e ci auguriamo che questo non sia il destino delle nostre università. Chi scrive ha sempre condiviso l’approccio critico che vede vita ed opera di un autore sempre intrecciate. Ricordo la lettura di un saggio impressionante di Paul Johnson, Gli intellettuali, che descrive la miseria umana di figure come Rousseau e Marx, Sartre e Fassbinder, Hemingway e Norman Mailer…

Ma per quanto la vita di tali personaggi sia piena di ombre e misfatti, il valore della loro opera letteraria resta intatto. Si pensi al filonazista Heidegger, che resta comunque – assieme a Bergson e Wittgenstein a parer mio – uno dei più grandi filosofi del ’900. Ben venga perciò una politica che dia sempre più spazio alle donne e alle minoranze, nonché allo studio di autori provenienti da Asia ed Africa, ma che ciò vada discapito della nostra eredità giudaico-cristiana è un esempio della bêtise dilagante e soprattutto un grave errore, storico e culturale.

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