venerdì 24 febbraio 2023
Il domenicano Collin lancia un j’accuse: «I cristiani vogliono cambiare il mondo invece di salvarlo, ma dimenticano la fede e si volgono a forme erronee di stoicismo»
Il filosofo Dominique Collin

Il filosofo Dominique Collin - La Croix

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In un saggio importante di pochi anni fa, Dio sorpresa per la storia. Per una teologia postsecolare (Queriniana), il teologo Carmelo Dotolo scriveva: « Il Dio del futuro sembra più simile alla freschezza, giocosità, imprevedibilità di Dioniso. La lezione della nuova mitologia fa la sua comparsa nella religiosità postsecolare accanto alla scoperta delle religioni orientali». In effetti, all’interno della rinascita religiosa cui stiamo assistendo da inizio millennio si fa strada com’è noto la spiritualità fai-da-te, ovvero la ricerca di un’interiorità che prescinda dalle fedi riconosciute. E oltre al rinnovato interesse per le filosofie orientali, che rappresenterebbero una via meno impegnativa rispetto all’impianto ebraico-cristiano e che unirebbero più pacificamente meditazione e riflessione in un’esperienza religiosa capace di dare sollievo al corpo e allo spirito, assistiamo al ritorno del politeismo. È Marc Augé il pensatore di riferimento. Ecco cosa si legge nel suo saggio Genio del paganesimo (Bollati Boringhieri 1982): « Il paganesimo politeista non conosce i tormenti della fede e dell’impegno ed ignora il legame esclusivo e reciproco fra l’individuo e Dio instaurato dalla tradizione giudaico-cristiana». Dunque, può guarire le patologie dei monoteismi che denerano nel fondamentalismo. Lo rileva anche il filosofo Dominique Collin nel suo libro Credere nel mondo a venire (Queriniana, pagine 144, euro 17,00) da poco in libreria. L’autore, che è anche teologo domenicano, vive a Liegi e insegna al Centro Sévres di Parigi, è assai noto nel mondo francofono per le sue conferenze sul futuro del cristianesimo. Ed è di questo tema che ci parla nel nuovo saggio in cui rilegge la Lettera di Giacomo e, come faceva Sergio Quinzio, s’interroga sul contrasto fra l’annuncio di liberazione di Gesù Cristo e degli apostoli e la triste realtà del mondo contemporaneo, che definisce “intollerabile”. E si domanda già nella prima pagina del libro: «Vedendo come va il mondo mi chiedo: sarebbe stato diverso, se la fede non lo avesse disertato?». Poi aggiunge: « Lo volete, voi, un mondo che disumanizza a tutta velocità? Un mondo che determina la mercificazione di tutte le cose? Un mondo che suscita l’invidia, accresce le disuguaglianze, declassa ed esaspera i più fragili, che disprezza mentre li sta sfruttando?». La risposta è ovviamente negativa: non è possibile accettare la deriva di un mondo «che ci prepara un futuro di androidi su una terra a ferro e fuoco, di un futuro posto trans- umano». Di qui il discorso che tocca il neopaganesimo, in cui il mondo attuale si ritrova più volentieri che nell’abbraccio del Vangelo e che oggi ha il volto dello stoicismo. Difficilmente si troverà qualcuno che vi si appella apertamente, tranne pochi filosofi e intellettuali snob, ma sono numerose le persone che vi si ispirano senza saperlo. Ecco l’analisi di Collin: «Chiamo stoicismo, secondo la maniera antica e nella sua versione postmoderna, l’arte del conformismo. Quest’arte la si trova oggi declinata in numerose forme, che vanno dai metodi di sviluppo personale e dal coaching a quelli che prescrivo-no come nutrirsi bene, come gestire bene il tempo, come promuovere bene la propria carriera, eccetera”. Una sorta di prontuario per l’esistenza ispirato al politicamente corretto che abbraccia anche il mondo spirituale, con un ricco ventaglio di riferimenti ed esperienze neopagane che finisce per contaminare anche il cristianesimo. Ma torniamo alla domanda che apre il volume. «Vedendo come va il mondo mi chiedo: sarebbe stato diverso, se la fede non lo avesse disertato?». Cosa vuol dirci il teologo domenicano? Che il cristianesimo nel corso della storia a un certo punto ha pensato di costruire un mondo cristiano piuttosto che salvare il mondo, e precisamente questo mondo. È stato il sogno della cristianità, un disegno e un’ambizione sotto il segno del fallimento, tanto che oggi il mondo cristiano è ridotto ai minimi termini. Allora, che fare? Il primo errore da evitare è quello di «cambiare mondo, piuttosto che salvare il mondo». Il riferimento è rivolto ad alcune tendenze presenti nel cristianesimo contemporaneo che invitano a isolarsi, a creare comunità perfette in cui rinchiudersi. In poche parole, a disertare il mondo, come accadde nei primi secoli col fenomeno dell’eremitismo. Ma se allora monaci e anacoreti avevano la funzione essenziale di ricordare che il cristianesimo non può prescindere dal discorso escatologico, oggi chi propone questa scelta lo fa proprio perché rifiuta il mondo e ne vuole fuggire. Spiega Collin riferendosi a Gesù: « Il mondo a venire che egli chiamava Regno non è un’utopia o un paradiso post mortem. Ma una realtà presente, resa operante da un certo modo di vivere. Una fede che fosse disattivata da ogni attuazione al fine di salvare questo mondo sarebbe una fede morta». Di qui la riscoperta della Lettera di Giacomo, che contiene un giudizio critico sul mondo che vivevano i primi cristiani – e oggi, sia detto en passant, abbiamo dimenticato la dimensione critica della fede rinunciando a vivere un rapporto sincero e originale tra fede e cultura, come se la cultura non ci interessasse più – la consapevolezza che al cristiano possono toccare le prove della fede – si pensi alle persecuzioni sempre più forti contro il cristianesimo un po’ ovunque nel mondo –, e la sollecitazione alla fraternità, vero riscontro dell’autenticità della fede. Dove è sperimentata la fraternità, i valori del mondo sono capovolti e non domina più la logica della cupidigia e della sopraffazione, e nemmeno la vanità del vuoto che contraddistingue molte esistenze. La pratica del dono sovverte la mentalità che fa di tutto una preda e ha portato alla realtà del consumo sfrenato e dello spreco. Esattamente come ai tempi di Giacomo, che si rivolgeva ai fratelli dispersi nell’area mediterranea, i cristiani sono chiamati a vivere in una condizione di diaspora, senza rinnegare il mondo né scimmiottarlo.

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