martedì 20 gennaio 2009
Successo alla Scala per la formazione nata dieci anni fa, diventata un simbolo mondiale di speranza. «La guerra in Medioriente ha cancellato alcune tappe del nostro tour. Alcuni di noi erano fanatici e militanti, oggi magari litighiamo ma abbiamo capito che il dialogo serve a superare le divisioni».
L'INTERVISTA Barenboim: «Andremo anche a Gaza»
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Quando li vedi lì, alla fine del concerto, stretti sul palcosce­nico, abbracciati per una foto­grafia da metter come sfondo sul computer, sorridi. E speri, dimen­ticando per un attimo le immagini drammatiche di Gaza che in questi giorni ti hanno riempito gli occhi e l’a­nima, che il futuro del Medioriente possa un domani essere nelle loro ma­ni. Nelle mani di Ramzi che ieri lan­ciavano sassi contro i militari israelia­ni e che oggi imbracciano una viola. In quelle di Daniel che un giorno trema­vano dopo un’accesa discussione con un compagno palestinese e che oggi fanno vibrare le corde di un violino. Mani che hanno imparato a stringersi, ad abbracciare, a tendersi verso l’altro. A produrre armonia. Quella della mu­sica che i ragazzi della West Eastern Di­van hanno sui loro leggii da dieci anni quando l’israeliano Daniel Barenboim e il palestinese Edward Said si sono in­ventati un’orchestra per far suonare fianco a fianco ragazzi i cui genitori si parlano solo attraverso il linguaggio della violenza. Domenica i musicisti della Divan sono tornati al Teatro alla Scala dove avevano debuttato nel 2006. Il clima, però, era diverso. Ieri qualche timida speranza di pace. Oggi solo la voce delle armi. «Penso che in tempi come questi dove la gente sembra obnubilata dall’odio sia ancora più importante suonare in­sieme per far capire che ci sono altri modi per risolvere i conflitti: i rappor­ti di amicizia che abbiamo stretto in questi anni tengono ancora oggi, no­nostante la violenza attraverso la qua­le si parlano i nostri popoli» dice Nabeel Abboud Ashkar palestinese, ma citta- dino israeliano, violino nelle fila della Divan e direttore del Conservatorio di Nazarteh aperto due anni fa proprio dalla fondazione Barenboim-Said. «certo – aggiunge – anche noi discu­tiamo e spesso animatamente, ma cre­diamo nelal forza del dialogo». Nabeel e compagni, agli ordini della bacchetta di Barenboim, hanno entu­siasmato il pubblico milanese – che, in piedi, li ha applauditi per un quarto d’ora – con un ricco programma : il Concerto per tre pianoforti di Mozart (solisti lo stesso direttore, Yael Kareth e Karim Said), le Variazioni per orchestra di Schoenberg, la Quarta sinfonia di Brahms e il trascinante bis con la sinfo­nia dalla verdiana Forza del destino. Ba­renboim, abituato a grandi orchestre come i Wiener o la Staatskapelle di Ber­lino non fa sconti: chiede disciplina, suono pieno, passione. I ragazzi – tra lo­ro anche un giovanissimo violinista di soli 11 anni al quale Barenboim sorri­de sempre rassicurante – rispondono alla grande, frizzanti in Mozart, appas­sionati in Brahms, da brivido nell’ita­lianissimo Verdi. Affiatati e complici. «Prima di iniziare a fare musica in que­sta orchestra – confessa l’israeliana Meirav Kadichevski, che tira un sospi­ro di sollievo dopo l’assolo all’oboe – a­vevo paura di tuto ciò che riguardava il mondo arabo: ora ho imparato a ve­dere le cose con altri occhi e ho capito che, nonostante le differenze culturali e sociali, dobbiamo costruire una stra­da che porti alla convivenza». Mentre le luci si spengono gli occhi di Ramzi Aburedwan – palestinese di Ramallah che oggi ha aperto una scuola musica­le nel campo profughi, ma che da pic­colo era diventato il simbolo della lot­ta del suo popolo tanto che la foto di lui che tirava pietre contro i militari israe­liani era su tutti i muri di Ramallah – si fanno tristi: «Ora i miei amici israelia­ni torneranno in città, magari nel vil­laggio dove mio nonno viveva prima del 1948. Io farò ritorno al campo pro­fughi dove la mia famiglia vive da sessant’anni». Ma Ramzi sa di poter con­tare sull’amicizia di Daniel Cohen che lo rassicura: «Dobbiamo andare avan­ti perché prima o poi, ne sono certo, tutti si convinceranno che la strada del dialogo è l’unica possibile».
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