domenica 23 gennaio 2011
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Tutta la luna centimetro per centimetro: dalla fine del 2010 non solo il racconto fotografico completo del nostro satellite è disponibile in Internet, ma anche i dati riguardanti la composizione del suo suolo, la cui prima mappatura completa è stata realizzata da una missione spaziale indiana, chiamata Chandrayaan-1, tra il 2008 e il 2009 (pagina 15 e seguenti nel sito "web chandrayaan-1"). Una missione complessa, che ha fatto dell’India la terza potenza spaziale del mondo: l’unica che, dopo la Russia gli Usa e il Giappone, abbia inviato una sonda fin lassù. Il vettore spaziale trasportò 11 apparecchiature scientifiche, sei di fabbricazione indiana, cinque provenienti da Europa e Stati Uniti; orbitò attorno alla luna rimanendo attiva per undici mesi e, prima di spegnersi, raccolse un’imponente messe di informazioni, tra cui circa 70 mila fotografie e precisi dati mineralogici. Una delle apparecchiature è allunata, superando con un volo di circa mezz’ora i 100 chilometri tra il vettore spaziale e la superficie, e scavando una piccola fossa nel terreno del polo sud, vicino al cratere di Shackleton. Nel corso del suo volo, il Moon impact probe (Mip) il 14 novembre 2008 mandò anche segnali importanti per preparare il secondo allunaggio, previsto per il 2012. I dati che documentano tutta la superficie lunare, saranno resi di pubblico dominio attraverso un apposito portale Web: «Le informazioni saranno raggruppate in due sezioni – ha spiegato Gopala Krishna, direttore delle applicazioni nell’Indian space research organization (Isro), secondo quanto riferito recentemente da Press Trust of India – la prima includerà quelle raccolte dal novembre 2008 al febbraio 2009, la seconda, che sarà resa pubblica per metà 2011, quelle reperite da marzo ad agosto 2009». La missione indiana è stata di fondamentale importanza anzitutto perché, grazie alla prima mappatura completa sotto il profilo geografico (ma forse si dovrebbe dire "selenografico") e mineralogico, ha confermato la presenza di acqua sulla superficie del nostro satellite. I dati raccolti hanno anche permesso di stabilire che vi è una continua generazione di molecole di H2O. In pratica la luna, che sembrava totalmente arida, produce acqua: come una spugna assorbe nuclei di idrogeno provenienti dai venti solari; questi, interagendo con l’ossigeno presente sulla superficie, danno luogo alle molecole d’acqua. Questa è sinora la spiegazione che viene data al fenomeno. Il che è ovviamente un’ottima notizia nella prospettiva di un ritorno dell’uomo sulla luna, magari per stabilirvi basi permanenti, che potrebbero essere usate per la ricerca, ma anche, secondo un’ipotesi già a suo tempo formulata dai pionieri dell’esplorazione spaziale, per assemblarvi astronavi che, approfittando della bassa forza gravitazionale, potrebbero da qui partire con maggiore facilità per i viaggi interplanetari. Tra le altre scoperte compiute da Chandrayaan-1 si segnala quella di un’ampia grotta con un’imboccatura larga 360 metri e lunga circa due chilometri che, secondo alcuni ricercatori indiani, potrebbe essere adattata come luogo abitabile. Inoltre la missione ha individuato diversi minerali utili, tra cui titanio, ferro, calcio, magnesio, alluminio. È rilevante che informazioni di questo genere, che siamo abituati a ricevere da Paesi che giudichiamo all’avanguardia in campo industriale, giungano ora da un Paese che fino all’altro ieri sembrava relegato ai margini, e in cui la maggioranza della popolazione vive tuttora in condizioni di povertà. Eppure il programma spaziale indiano è tra i più blasonati: partì infatti già nei primi anni Sessanta. Anch’esso, come accadde col programma Apollo, che J.F. Kennedy nel ’62 volle orientare a «portare l’uomo sulla luna e farlo ritornare salvo», è figlio della sorpresa (e della minaccia) generata nel 1957 dallo Sputnik sovietico, il primo satellite artificiale messo in orbita. «Alcuni contestano che un Paese in via di sviluppo si dedichi alle attività spaziali. Ma per noi – disse allora il "padre" dell’Isro, Vikram Sarabhai – gli obiettivi sono chiari. Non abbiamo l’ambizione di competere con le nazioni economicamente avanzate nell’esplorare la luna o altri pianeti, ma siamo convinti che se dobbiamo giocare un ruolo importante nel consesso delle nazioni, non dobbiamo essere secondi a nessuno nell’applicare le tecnologie più avanzate ai problemi reali dell’uomo e della società». Nel 1962 fu attivato il centro di Thumba (intitolato a Sarabhai dal 1971, alla morte di questi), sulla costa dell’Oceano Indiano, e il primo lancio sperimentale avvenne l’anno successivo. Alla metà degli anni settanta fu messo in orbita il primo satellite indiano. Nel 1968 il primo ministro indiano, Indira Gandhi dedicò il centro di Thumba alle Nazioni Unite e da allora diversi Paesi, tra i quali gli Usa e Urss (ora Russia), lo usano correntemente, giovandosi della sua ubicazione in prossimità dell’equatore che lo rende particolarmente appetibile per il lancio dei satelliti. Ora è in preparazione Chandrayan-2 per una seconda missione lunare, mentre l’Isro sta realizzando un proprio shuttle, per il quale sono già stati compiuti alcuni voli di prova. È curioso constatare che proprio in questi mesi i gloriosi shuttle statunitensi stanno compiendo le loro missioni finali. I tagli sul bilancio della Nasa non consentono di continuare a operarli, e per inviare rifornimenti o personale sulla stazione orbitale gli Stati Uniti si dovranno servire dei veicoli russi: un accordo in tal senso è già stato raggiunto. Tra gli obiettivi vantati dalla missione Chandrayan-1 v’è stato quello di «mettere la bandiera indiana sul suolo lunare»: espressione di un tipo di orgoglio che si ritrovava nelle parole di un presidente come J.F. Kennedy, capace di mobilitare gli animi a grandi imprese. È confortante sapere che questo orientamento sia stato fatto proprio da un Paese come l’India, culla della matematica (lì fu inventato lo "zero") nonché della non-violenza.
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