giovedì 31 ottobre 2019
Dieci anni fa moriva la grande poetessa, poco dopo aver incontrato il padre cappuccino Gianluigi Pasquale che oggi ricorda quei momenti estremi di consapevolezza
La poetessa Alda Merini (1931-2009)

La poetessa Alda Merini (1931-2009)

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«O morte, che tutti credono ributtante e infelice, tu sei una vergine leggiadra che mi scioglierà da questo letame, la donna che consegnerà il mio calvario al Signore» ( Francesco: canto di una creatura, Frassinelli 2007). Non avevo, sinceramente, in mente il frammento di questa poesia uscita dalla penna di Alda Merini domenica 1° novembre 2009 quando la poetessa lasciò questa terra. Volendomi, Alda, al capezzale del suo letto come un frate francescano qual sono. Lei che, alla pari del “pazzo di Dio” come fu considerato il Poverello di Assisi, gli aveva dedicato pagine intere di poesie. Ma non poteva essere diversamente. Alda, considerata folle dai sapienti di questo mondo, attraverso una sofferenza che nessuno potrà mai esaustivamente descrivere, aveva capito che «ciò che l’uomo trova inutile, le cose più piccole, i più insignificanti silenzi, Dio li trova estremamente preziosi». Su quel letto dell’ospedale San Paolo a Milano, dove Alda volle ricevere proprio da me l’ultima benedizione e sussurrarmi le righe di una poesia che non ho ancora voluto trascrivere, l’affascinante donna dagli occhi verdi ha consegnato per davvero il suo calvario al Signore.

Come tutti i poeti, Alda dava voce a quell’amore di cui non si osa dire il nome perché sapeva che nessuna cosa riavvicina là dove la Parola manca. E Alda dominava la Parola: per questo non ci si può staccare da Lei. Intelligente come pochi, aveva compreso che si imprimono indelebilmente le proprie impronte nella storia con il passo della sofferenza: alla pari di Francesco, morto nudo sulla nuda terra vicino alla chiesetta della Porziuncola in Assisi, del cappuccino Pio da Pietrelcina, entrambi stigmatizzati, di santa Teresa di Calcutta e di san Giovanni Paolo II, a loro modo saliti «sulla croce del Figlio del falegname».

All’indomani di quell’ultimo saluto benedicente che diedi ad Alda il giorno di Ognissanti di esattamente dieci anni or sono, tra le tante testimonianze che ricevetti, ve ne fu una che segna ancora oggi la mia memoria. E che non posso assolutamente dimenticare. Fu una telefonata di un mio giovane confratello di Bari, pure lui ammiratore di colei che nacque, nel 1931, «il 21 a primavera»: addolorati alla notizia della morte, la stessa sera di quel 1° novembre tutti i frati del convento di Santa Fara in Bari si riunirono, dopo cena, nella stanza “del caminetto” e si rac- colsero in preghiera. Posso soltanto immaginare il silenzio e la commozione. Nel guardare il fuoco che riscalda le notti di novembre, i frati non recitarono, tuttavia, preghiere cristiane qualsiasi, ma lessero le poesie che Alda aveva scritto pensando al nostro fondatore, san Francesco d’Assisi. Quei giovani frati, successori del Poverello, avevano fatto – pensai – la scelta giusta. Avevano, infatti, intravisto come Alda – con il suo amore, il suo respiro universale, il suo animo scevro da ogni confine o distinzione – fosse riuscita a trasportare nel XX secolo ciò che Francesco d’Assisi aveva assaporato otto secoli prima: un’autentica e fol- le “cotta” per Dio.

A tal punto da non avere paura di nulla – proprio come Alda – nemmeno della morte, quando, nell’ultimo giorno della sua esistenza terrena, Alda si fece mettere lo smalto rosso sulle unghie delle mani prima di confidarsi con me. Prima di dirmi i suoi ultimi versi. Fu allora, però, che mi rammentai chiaramente di un frammento della serie di poesie scritte da Alda su Francesco d’Assisi e che, per me, costituisce l’anello tra i due: il coraggio di chiamare “sorella” l’angelo della nostra morte: «Ora sono un guerriero che corre senza cavallo, coi miei piedi sudati e stanchi verso il traguardo di Dio. E sogno la morte angelica, una sorella dai mille volti». Ma mi sovvenne anche un desiderio che mia mamma Giovanna mi ha lasciato in eredità quando giungerà per lei la sua ultima ora: «Una sola rosa rossa ci dovrà essere in chiesa», l’unico colore capace di indicare l’Amore spesosi per gli altri, per l’Altro, il colore della rosa, ma anche il colore dello smalto.

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