venerdì 6 gennaio 2012
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Se n’è andato ieri, nelle braccia del Signore, alla vigilia dell’Epifania (i funerali si terranno presso l’Abbazia di Viboldone, dove da anni viveva, domani sabato 7 gennaio alle ore 11,30), una delle figure più singolari della cultura cristiana degli ultimi cinquant’anni, don Luisito Bianchi, prete e scrittore, che ha sempre avuto a cuore e come centro della propria esperienza il tema della gratuità, ricorrente in tutti i suoi scritti, da quelli strettamente narrativi a quelli di memoria, fino ai diari.In uno dei suoi ultimi libri, pubblicato da L’Ancora del Mediterraneo, Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada, scrive che «la gratuità nel ministero è un tema da infinite variazioni, almeno una per ogni giorno di vita, perché ogni giorno si presenta con un nuovo cesto di doni sconosciuti da svuotare, un canone all’infinito». A sottolineare questo "valore", nel libro, c’è anche il nome che dà al cane che un giorno gli attraversa la strada, lo segue e gli diventa amico e, come scriveva don Luisito, «diventa a ogni chiamata, un evangelizzatore». Lo chiama così Dorean perché «è l’avverbio che corrisponde al nostro "gratis", e si trova in Matteo 10, 8: "Avete ricevuto gratuitamente (dorèan), gratuitamente (dorèan) date». Al tema Bianchi ha dedicato anche un testo edito da Gribaudi, Dialogo sulla gratuità (2004). Legato alla grande pianura della Bassa cremonese, dove gli «è capitato di nascere (nel 1927) e di crescere su questo grumolo di terra e di case, nel cuore della Grande Pianura, dallo scanzonato e solenne nome di Vescovato», Bianchi è diventato sacerdote dal 1950. Nella sua vocazione e nella scelta hanno contato l’esempio e l’amicizia con un altro grande prete, don Primo Mazzolari, tanto che don Luisito aveva scritto: «Nella mia decisione a scegliere nella vita di diventare prete, i libri e l’esempio di don Primo ebbero una grande importanza; soprattutto sul modo di esercitare il sacerdozio, se mai fossi giunto a tale meta. L’influenza andava al cuore dell’evangelo senza che altre considerazioni potessero intromettersi». È stato poi insegnante, prete-operaio e inserviente d’ospedale. Proprio tra la fine degli anni ’60 e i ’70 si colloca l’esperienza del lavoro in fabbrica, intuita come «scelta ecclesiale», approvata dal suo vescovo e dettata da «un desiderio di onestà: dopo tanti anni in cui avevo parlato del lavoro e della sua teologia, chiesi di lavorare in fabbrica». Nel febbraio 1968 entra alla Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio. Sono tre anni cruciali nella vita del sacerdote, «tre anni che reputavo allora e, a maggior ragione, oggi la cerniera delle due ante della mia vita, del prima e del dopo». Don Luisito decide di raccontarli, in Come un atomo sulla bilancia, uscito nel 1972 da Morcelliana e riedito da Sironi nel 2005, scritto di getto, in due mesi, nel 1970, dopo aver lasciato la fabbrica, «quasi un’elaborazione rappacificata delle 1500 pagine di diario, spesso tumultuose e ossessivamente monotematiche» che aveva tenuto durante quel periodo e che sono stati pubblicati, anch’essi da Sironi, nel 2008 (I miei amici. Diari 1968-1970).L’altra "anta" rilevante nell’esperienza di don Luisito è quella della scrittura del romanzo che è diventato un caso editoriale: La messa dell’uomo disarmato. Nel 1975, quando la madre si ammala, don Luisito si licenzia dall’Ospedale Galeazzi per seguirla. «Lavoravo come traduttore, ma avevo molto tempo libero. È stata quella l´occasione per riflettere sugli eventi che avevano dato senso alla mia vita. Ho iniziato ad ascoltarmi, quindi a scrivere. Più di mille pagine, con un titolo provvisorio: Una Resistenza». Il romanzo viene rifiutato da molti editori e esce in un’edizione autofinanziata da alcuni amici, tra il 1989 e il 1995. Moltissimi sono stati i lettori di questo romanzo sulla Resistenza, assai corposo, di stampo manzoniano, passato di mano in mano, al riparo dai clamori editoriali, creando una specie di "coro" di estimatori di quello che possiamo, senza ombra di dubbio, definire "un capolavoro" della nostra recente narrativa che i lettori hanno potuto finalmente conoscere grazie alla collana di Giulio Mozzi, diretta per l’editore Sironi che accetta la sfida di far conoscere il testo e lo pubblica nel 2003, suscitando subito un coro unanime di consensi da parte della critica e facendolo diventare uno dei titoli di punta del suo catalogo, una sorta di long-seller. È un romanzo che inizialmente don Luisito voleva intitolare "Grazie", perché recuperava il valore della memoria, tema assai caro al prete-scrittore che diceva: «La memoria è il puntino impercettibile che salda il cerchio della vita e mi fa dire, come succo di queste storie di vecchio lunario: vivere, ne valeva la pena». Da sottolineare anche le sue predilezioni tra mistica e letteratura, quella per la figura di Don Chisciotte e quella per la poesia di San Giovanni della Croce, che lo ha accompagnato per tutta la vita, dalla preparazione alla scelta di diventare prete, fino all’opera di traduzione che è il lavoro letterario con cui si congeda, il trittico Salita al Monte Carmelo, Notte oscura e Cantico spirituale da lui curato per le Edizioni Dehoniane di Bologna. Per don Luisito, in San Giovanni «il vertice di tutto, "non sapendo altro che amare", è l’amore», un’altra variazione di quella gratuità che ha sempre posto a capo della sua esperienza.​
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