domenica 28 gennaio 2024
La Biennale riporta nella chiesa di San Lorenzo uno dei capolavori del secondo ‘900 a 40 anni dalla prima e per i 100 dell’autore: arcipelago dove il suono è l'utopia di uno spazio aperto e plurale
“Prometeo. La tragedia dell'ascolto” di Luigi Nono, riallestito 40 anni dopo nella Chiesa di San Lorenzo

“Prometeo. La tragedia dell'ascolto” di Luigi Nono, riallestito 40 anni dopo nella Chiesa di San Lorenzo - La Biennale di Venezia / Andrea Avezzù

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Prometeo. La tragedia dell’ascolto di Luigi Nono e Massimo Cacciari è tornato a casa dopo 40 anni di navigazione nel mondo. Quello che è non a torto considerato non solo il capolavoro del compositore ma uno degli approdi più alti della musica del secondo Novecento, è stato riallestito a Venezia dalla Biennale, che l’aveva voluto, in collaborazione con la Fondazione Archivio Luigi Nono e TBA21-Academy nella stessa chiesa sconsacrata di San Lorenzo dove aveva debuttato nel 1984 (dopo la prima di venerdì scorso, repliche fino domani, giorno in cui si terrà una convegno alla Biblioteca della Biennale). Di quella prima e per molti versi eroica esecuzione tornano i flauti di Roberto Fabbriciani e la tuba Giancarlo Schiaffini, oltre ad Alvise Vidolin allora alla “realizzazione informatica” e ora ai live electronics, la fondamentale manipolazione in tempo reale del suono. Sul podio che fu di Claudio Abbado c’è Marco Angius – lucido interprete di Nono – che con l’aiuto Filippo Perocco dirige quattro gruppi orchestrali dell’Orchestra di Padova e del Veneto, due ensemble di solisti strumentale e vocale, coro e voci recitanti: 79 elementi in tutto distribuiti all’interno del peculiare spazio seicentesco di San Lorenzo, la cui pianta quadrata è divisa in due aule da un tramezzo trasparente che in antico separava clausura e chiesa pubblica. Impossibile recuperare l’originale Arca progettata da Renzo Piano e che tanto contribuì a fissare Prometeo nell’immaginario, abbandonata già dopo la performance di Milano del 1985, Antonello Pocetti e Antonino Viola con le luci di Tommaso Zappon hanno immaginato una struttura di cantorie a più altezze che non sembra aver fatto rimpiangere l’originale, forse perché probabilmente il segreto sta nell’ottima acustica dell’edificio che stimolò attivamente Nono: «Questi legni, queste pietre-spazi di San Lorenzo, infiniti respiri» scriveva nei diari raccolti nel 1984 nel volume Verso Prometeo, ripubblicato integralmente dalla Biennale nel catalogo che accompagna questa edizione.

La soluzione mantiene intatto il principio del Prometeo, che Nono definiva «tragedia composta di suoni, con la complicità di uno spazio», ossia la collocazione del pubblico al centro, in un ribaltamento programmatico della prassi concertistica e del teatro in musica che nella rigida frontalità visiva e spaziale di palco e platea aveva instaurato una monodirezionalità dell’ascolto che nell’opinione di Nono coincideva con una altrettanto rigida temporalità narrativa del pensiero musicale. Prometeo è l’esito di un lungo percorso di scardinamento di questo impianto verso una musica che non rappresenta ma che presenta il suono (parola compresa) nel suo essere materia. E ritrovare un «suono mobile», da cui la struttura ad arcipelago dell’opera, le cui ragioni stanno in una drammaturgia che si compie solo nell’ascolto.

Il vero protagonista di Prometeo è dunque l’ascoltatore: Nono allestisce un suono che succede “per” il pubblico, nel senso di moto e di mezzo. Un pubblico coessenziale allo spazio. Una vertigine – complice non solo il testo ma soprattutto il pensiero di Cacciari, che di questo lavoro è padre alla pari di Nono – parcellizzata nel singolo ascoltatore in funzione della sua collocazione, tale per cui ogni esperienza di Prometeo è unica e incompleta, e anche per questo tragica. Nel vorticare del suono nello spazio, nella spaesante interruzione dell’automatismo che lega fonte acustica e oggetto sonoro, è un lavoro impossibile da riprodurre nel vitro dell’impianto audio o della cuffia. Può esistere solo dal vivo: nel momento, nel luogo.

Eppure, usciti da San Lorenzo, è impossibile non chiedersi cosa significhi ascoltare Prometeo quarant’anni dopo la sua creazione. Dove va Prometeo? Proprio lo slancio verso l’ignoto sono le sue catene. Questa tragedia dell’ascolto è anche quella della musica delle neoavanguardie, vincolata dalle proprie radici al titanismo dell’inaccessibilità. Prometeo, ed è la sua bellezza, si apre a infinite possibilità di ascolto e con esse balbetta l’impossibilità di dire un tutto polverizzato. In questa partitura Nono, cessando insieme alle rigidità ideologiche dei decenni precedenti ogni finalismo egemone e progressivo, cancella ogni significato alla storia che non sia una presa di coscienza dell’istante. Ma questo non poteva essere il destino della musica se non in una prospettiva utopica, qualcosa sempre in cammino e che mai può essere raggiunto (come la Rivoluzione, o il Regno…): Prometeo, con la sua Arca chiamata a traghettare verso l’oltre quello che Massimo Mila 40 anni fa definiva «ideale panacustico», è per Nono ciò che per Verdi è il Requiem, ossia la fede che la salvezza si soltanto nella musica?

Il vero destino, dunque, è abitare, vagando, il labirinto plurale e aperto dell’arcipelago. Ecco perché questa musica, che cerca di non essere più immagine che non vuole avere nulla a che fare con il racconto, resta inimmaginabile senza Venezia, «multiverso acustico», diceva Nono, in cui «i suoni delle campane si diffondono in varie direzioni: alcuni si sommano, vengono trasportati dall’acqua, trasmessi dai canali… altri svaniscono quasi completamente». Il principio circolatorio, il motore acustico di Prometeo sembra essere proprio lo sciabordare continuo, il beccheggiare sopra le onde e attraverso le nebbie non solo dei segnali reali o percepiti ma di un suono sedimentatosi nel dedalo acustico della laguna e che Nono rievoca, in senso letterale, come silenzio. Una Venezia prometeica e utopica nel suo essere città impossibile, città miraggio. Proprio in questa proiezione verso l’ignoto del Prometeo si annida – ed è forse il cuore struggente della sua musica al di là di ogni sovrastruttura ideologica, filosofica o estetica – la lontananza nostalgica utopica futura di una civiltà.

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