giovedì 9 agosto 2018
Il nuovo progetto del cantautore, fratello maggiore di Francesco De Gregori: «Il cd ormai sta tramontando e io riscopro i vecchi singoli Sul mio sito internet come con i cari 45 giri»
Luigi “Grechi” De Gregori, 74 anni (foto Giuseppe De Gregori)

Luigi “Grechi” De Gregori, 74 anni (foto Giuseppe De Gregori)

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Come nel ’56 e giù di lì. Ai tempi degli amati 45 giri, che avevano i lati pur essendo circolari. È l’iniziativa di Luigi “Grechi” De Gregori, quello che «studiava lingue misteriose / in ginocchio su una sedia / coi capelli corti» ne Il ’56, la nostalgica canzone di quarant’anni fa in cui il fratello Francesco, di sette anni più giovane, lo ha immortalato insieme a se stesso. Il fascino di quei vecchi 45 giri nella mente dell’altro De Gregori, che compirà 74 anni domani, torna a frusciare ora nel progetto di pubblicare sul proprio sito il 21 di ogni mese un brano nuovo o edito riarrangiato e risuonato. Corsi e ricorsi della storia, anche discografica. Da un paio di settimane è poi arrivato anche in radio Tangos e mangos , mentre a inaugurare a giugno il progetto era stata una nuova versione di Dublino. «Ho cominciato con un pezzo storico – spiega – perché mi era piaciuta la versione che della vecchia canzone scritta con mio fratello Francesco ne aveva fatta questo gruppo di ragazzi, Le Mondane. Io ho prestato la voce a questo loro rifacimento e, come atto scaramantico, ho inaugurato il progetto di una canzone al mese con dei giovani esordienti proprio nel giorno della festa della musica».

Poi ha cambiato registro, con una canzone decisamente “leggera”.

«Sì, insolito per la mia figura di autore. Dopo tante canzoni impegnate o di spessore, invecchiando mi concedo una distrazione. In questo progetto seguirò l’ispirazione del momento, ma certamente tornerò a parlare dei miei “angeli e demoni”. Non scriverò sempre da zero un brano, alcune canzoni sono pensieri che ho da tempo nella testa: però questo è anche un trucco per impormi delle scadenze e darmi da fare».

A parte agosto, col sito “chiuso per ferie”, che cosa sentiremo il 21 settembre?

«Mi occuperò di quella che io chiamo la “sindrome della miniera”. È come la nostalgia del mare per i marinai: la miniera attira e respinge chi ci lavora, perché i minatori sono tutti insieme in un gruppo, quasi una famiglia, come se fossero stretti nella pancia di una balena».

Fino a quando andrà avanti questo progetto?

«Non ha una data di scadenza. Finché potrò permettermi le registrazioni, continuerò. Sul sito ci sarà sempre qualcosa di nuovo o di originale, più avanti potrei anche ripescare e rileggere canzoni meno note del mio repertorio. L’iniziativa si sposa con la consapevolezza che il supporto musicale è al tramonto. Se il cd oggi non ha più rilevanza, è inutile avere una decina di pezzi tutti insieme. Ormai la musica si consuma a canzoni singole che, eventualmente, l’ascoltatore inserisce in una sua compilation. In ogni caso, a metà dell’anno prossimo potrei avere già un disco bell’e fatto. Magari in vinile, visto che sta tornando di moda. In fondo io non sto facendo altro che pubblicare quelli che una volta, quando ero ragazzino, erano i singoli 45 giri».

Intanto continua il suo tour permanente...

«E suonando ovunque continuo a sentire nelle pieghe delle province italiane grandi energie musica-li: un ritorno della musica dal vivo, almeno come necessità. Peccato che questo fermento venga spesso ignorato dal mercato discografico. Vorrei che ci fossero più club e più locali per dare spazio al “live”. Come fu con il famoso Folkstudio di Roma che è stato un motore enorme per la musica italiana. Ha fatto nascere tanti cantautori e grandi musicisti, da Venditti a mio fratello Francesco».

Com’erano quegli anni così lontani e diversi?

«Entusiasmanti e di grande creatività. Io sono stato uno dei più anziani promotori del Folkstudio. Ebbi l’incarico da Giancarlo Cesaroni (produttore discografico e dirigente d’azienda, morto vent’anni fa, ndr ) che mi faceva gestire il ritrovo la domenica pomeriggio quando lui andava alle corse dei cavalli. Ma non c’era niente da dirigere in fondo, era tutto molto spontaneo. Venne a suonarci persino Bob Dylan».

A proposito, come nacque il suo amore per il folk americano, matrice della sua stessa musica?

«Dalla radio. Negli anni ’50 eravamo inondati di musica americana. Io avevo 14-15 anni quando cominciavo ad ascoltare alla Rai pezzi come Tom Dooley. Erano tutte trasmissioni sponsorizzate dalle case discgrafiche: Rca o Durium esponevano le novità dei loro cataloghi esteri e italiani. Si sentivano anche cantautori tedeschi come Udo Jürgens, poi i francesi, da Edith Piaf a Jacques Brel».

Fu allora la folgorazione?

«Sì, quella che veniva soprattutto dall’America era una totale fusione tra culture musicali di almeno tre continenti. Ma ciò che mi ha davvero catturato è stato il suono della chitarra acustica ame- ricana (in Italia imperava la classica) che ha una costruzione diversa, con corde di metallo. Io non avevo ancora cominciato a suonare, ma mi piaceva quell’impasto sonoro. Poi al Folkstudio entrai in contatto diretto con quella musica e imparai ad ascoltare tutti i generi. Non sono un musicista capace di scrivere grandi melodie, ma sono cresciuto nella stagione della grande canzone d’autore e ne sono figlio».

Cosa resta oggi della forma canzone?

«Oggi nella musica c’è la dittatura del marketing e in generale penso che purtroppo i giovani siano poco interessati alla musica. Quella che viene spacciata per tale è in realtà soltanto spettacolo, intrattenimento e ballo. Tutte cose legittime e necessarie, sia chiaro. Poi esistono anche dei giovani che la musica la amano e drizzano le orecchie quando sentono qualcosa di nuovo che li colpisce. Ma siamo talmente inondati di musichette e suonerie varie che alla fine ci abituiamo a non prestare attenzione».

Che cosa deve invece al suo vecchio mestiere di famiglia, il bibliotecario?

«Spesso mi capitavano dei libri di cui non si sapeva l’autore, né dove e quando erano stati scritti. Ma io dovevo comunque catalogarli. Ecco, lì bisognava sapere che esistono dei repertori capaci di svelarti indizi e tracce da seguire. Saper cercare nei posti giusti. La mia professione passata oggi mi rende facilissimo viaggiare su Internet e trovare le notizie. So come raffinare le ricerche. Insomma, ho imparato ciò che manca oggi a troppi giovani: cercare con pazienza».

Sarebbe un maestro ideale...

«Io non ho avuto figli... Ma, certo, una simile abilità salverebbe molti giovani alle prese con l’indifferenziato mondo sommerso della Rete. Ci metteva già in guardia Umberto Eco. Il rischio paradossale poi, con tutti i dati che abbiamo a disposizione, è la sempre maggiore mancanza di approfondimento. Forse perché siamo circondati e viviamo con una infinità di protesi: di comunicazione (gli smartphone), di orientamento (i navigatori) e di movimento... E quando queste protesi si rompono ci troviamo disarmati, persi e sempre più soli».

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