domenica 15 marzo 2009
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È notte pesta a Milano. Al Rondò di Loreto una masnada di «picari conciati come ladri» è arrivata pedalando da tutte le province, dal Belgio e persino dalla Francia. «Avanzavan verso l’alba come grotteschi penitenti in fila», scrisse Gianni Brera immaginando la scena. Quasi tutti portano al collo gli occhialoni per difendersi dalla polvere delle strade bianche e dal fango delle campagne d’Italia. Uomini dal baffo più a manubrio della loro «macchina» – la bicicletta –, sfoggiano fiammanti Kodak per immortalare l’evento sensazionale. Gli strilloni intirizziti svegliano la città gridando: «Al via il primo Giro d’Italia!». L’orologio segna le 2,53 del 13 maggio 1909 e tra i 127 «Omeri» secondo la memoria storica di Alberto Brambilla o «Pionieri», come vuole quella del campione Fiorenzo Magni, spiccava il «gigante candido» Luigi Ganna. Figlio di principi della zolla, contadini del varesotto nei campi di Induno Olona, il «Luisùn» dal baffetto e il crine nero scolpito non sapeva ancora di essere sul punto di scattare un passo avanti alla cronaca ed entrare nella leggenda. Una leggenda della quale, come accade quasi sempre ormai, si era quasi persa la memoria: ci voleva il centenario della «corsa rosa» per rispolverare il vincitore del primo Giro d’Italia. Prima di arrivare in piazzale Loreto, in tempi ancora lontani da scempi di regime e un lustro almeno di distanza dal sangue delle guerra di trincea, quel ragazzone del Luisùn si era temprato alla fatica donchisciottesca dello stare in sella al trabiccolo d’acciaio. Sulla sua pesantissima bici ogni mattina era un risveglio duro all’alba e le natiche doloranti trovavano parziale sollievo con la bistecca spalmata sul sellino petroso, escamotage che serviva a coprire la tappa doverosa Induno-Milano. Cento chilometri tirati al massimo provando il tempo e tagliando – ben prima del Fausto Coppi (classe 1919) – la nebbia con il naso per alzare le braccia al traguardo del cantiere. Sempre la stessa vita da magütt, muratore per dieci ore al giorno, con ritorno a casa al buio appena illuminato dal faretto precario. Un tragitto di fatica che divenne l’allenamento del campione per sbalordire la folla assiepata nelle prime gare della domenica, promosse dalla Gazzetta dello Sport. Tappe più lunghe quasi di un intero Giro. Prove talmente estenuanti da non poter più conciliare lo sbracciare quotidiano su e giù per le impalcature, a darci dentro di cazzuola. osì a 23 anni il Luisùn decide che è tempo di dedicarsi a tempo pieno al futuristico ciclismo. L’«Atala» lo mette sotto contratto con uno stipendio di 50 lire al mese. In più, il miraggio ambizioso che ad ogni vittoria di «tappa lunga» (oltre i 200 km) si arrivava a staccare un assegno-premio da 60 lire. Quelle gambe generose del Ganna d’ora in avanti avrebbero spinto sempre più forte fino a spaccare la catena pur di arrivare prima degli altri a tutti i traguardi volanti sotto le stelle. Quando il 7 agosto del 1908 la Gazzetta pubblica in prima pagina l’annuncio, per voce del triunvirato Morgagni-Cougnet-Costamagna, che l’anno seguente sarebbe partita una grande corsa a tappe sul modello del Tour de France (inaugurato nel 1903), Ganna era già caldo da diverse stagioni. Alla partenza del Rondò arrivava carico di certezze. In quel 1908 vigilia della rosea trovata era andato a sfidare i francesi in casa loro al Tour e si era dovuto arrendere soltanto per C F manifesta inferiorità del mezzo meccanico, un telaio meno oleato di quello del Petit Breton Lucien Mazan, al quale però aveva messo il sale sulla coda nelle tappe di Metz e Nîmes. I taccuini a Parigi annotavano il nome di Luigi Ganna al 5° posto finale. E fino agli anni ’20 sarebbe rimasto il miglior piazzamento italiano alla Grand Boucle per quel giovanottone che i cugini d’Oltralpe sprezzanti marchiavano come «figlio di maccheronì». Ci avrebbe pensato Bottecchia a zittirli all’arco del trionfo, ma intanto tornato in Italia Ganna arriva a un passo dalla gloria alla Milano­Sanremo che già si correva dal 1907. atale fu il Turchino al Luisùn, raccontano le cronache scarne dell’epoca, in cui però affiora dolcissimo lo spirito d’amicizia della carovana su due ruote, ben distante dalle invidie mercenarie dell’era postmoderna del bionico Armstrong. Come un laccio di scarpa, Ganna spezza la catena e la sua corsa sarebbe finita lì se l’Avocatt, il colto amico Eberardo Pavesi, non gli avesse prestato la sua per continuare l’impresa. Dopo pochi chilometri Ganna spacca anche quella, si gira indietro disperato a vedere se per caso corre in suo soccorso il fraterno amico, il tipografo di Corsico Carlìn Galetti, ma non trova nessuno e la manna è una bici da passeggio con tanto di «tromba e fanale anteriore», precisa l’esperto Pier Augusto Stagi direttore di TuttoBici. Con quella scialuppa di salvataggio, fradicio di pioggia dopo 290 km, all’arrivo sul lungomare di Sanremo Ganna si piazza secondo dietro al belga Van Houwaert, primo nella classifica dei più odiati dai francesi che finemente lo apostrofavano come «Ventrouvert». Nell’anno di grazia 1909, Ganna indomito come sempre ci riprova. Questa volta di slancio piega anche la resistenza del tabù­Turchino: a Savona brucia il franco Georget, fermando il cronometro dopo 9 ore e 32 minuti di mattanza al pedale e scrivendo a caratteri d’oro la sua firma di eroe della Milano-Sanremo. Il telegrafo impazzito riporta la notizia a tutte le cascine dell’Olona e si fa festa con bottiglie più rosse del «Diavolo» Gerbi. Il quale quel 23 maggio a Milano partiva favorito con il poderoso Mazan per la conquista del «tesoretto» di 25mila lire, il montepremi messo in palio dalla Gazzetta al vincitore del Giro ancora senza maglia rosa (la prima la indossò Learco Guerra nel ’31). Un calvario in 8 tappe, 2.448,5 chilometri, partenza sotto la luna per arrivare al tramonto del giorno dopo. Solo 49 di quei «picari conciati come ladri» riusciranno ad andare fino al termine. Uno sforzo al limite della sopportazione umana che imponeva una tappa ogni 48 ore, sfidando le intemperie, le buche di strade romane, l’entusiasmo popolare di un Paese da «albero degli zoccoli» che non credeva ai suoi occhi al passaggio veloce di uomini dal volto di miniera, scavati dalla fatica e con le rughe sottolineate da un rimmel sbavato di pozzanghera. Oltre al fango della campagna c’era da fare i conti poi con quei «pirati» dei contadini che, per impedire il passaggio del Giro nelle loro terre, seminavano pezzi di vetro e chiodi che facevano spirare l’animella della camera d’aria del misero copertone senza scorta. Ganna fu più forte anche del bifolcame attentatore e della «cotta» che sul Macerone lo colse per colpa di un piatto di «pomodoro guasto» con cui si era rifocillato in una delle locande di fortuna. E la Fortuna, proprio nel momento cruciale e di massima visibilità del Giro, l’arrivo all’Arena di Milano, sciolse la benda e si ricordò di quel «Sansone sempre disposto a lasciarsi tosare». Il passaggio a livello di Rho interruppe la fuga di un gruppetto che lo aveva seminato, Ganna li riprese e all’Arena, il 30 maggio, salutava tutti quei tifosi accorsi per incoronare il primo re del Giro. Ganna era un velocista che al velodromo di Milano nel 1908 con km. 40,405 aveva stabilito il record dell’ora, eppure se si fosse corso «a tempi» come oggi e non a punti, quel primo Giro se lo sarebbe aggiudicato Giovanni Rossignoli con un distacco di 37 minuti. E nelle tre edizioni successive, quelle vinte dal «gemello» Galetti, Ganna in classifica avrebbe accusato fino a un ritardo di 2 ore e 46 minuti. Ma queste sono considerazioni da cannibali mediatici in un secolo liquido, più vuoto della borraccia a fine corsa, mentre quello di Ganna era ancora il tempo in cui si correva per fame, per rabbia o semplicemente per amore della bicicletta.
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