venerdì 20 giugno 2008
Settant’anni fa il regime fascista promulgava le leggi razziali: parla la studiosa , autrice di un saggio
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«Le leggi razziali del 1938 furono solo indirettamente eredi del razzismo già propugnato in Etiopia dal regime fascista. Ma con quest'ultimo, ebbero un chiaro punto in comune: la volontà di cambiare il carattere degli italiani». A sostenerlo è la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci, per la quale la legislazione antisemita di 70 anni fa sottese un «progetto di rivoluzione antropologica volto a fare degli italiani un popolo di conquistatori, dominatori, guerrieri». Della studiosa, la casa editrice Il Mulino ha appena pubblicato il volume L'Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (pagine 518, euro 29).Lei sostiene che l'antisemitismo fascista fu essenzialmente di natura politica. In che senso?«Fino alla metà degli anni Trenta, il regime non fu antisemita e criticò anzi abbastanza fortemente l'antisemitismo nazista. Le leggi razziali rappresentarono dunque, a mio parere, una rottura nella storia dell'Italia contemporanea e in particolare del regime fascista. Nel 1937, data di questa rottura, il regime conosceva un certo affievolimento del consenso e una forma di pausa nella dinamica totalitaria, dopo gli entusiasmi suscitati dall'offensiva in Etiopia. Il regime non aveva più autentici antagonisti politici e dunque le leggi antisemite furono pensate come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria». Dato che un certo tipo di attivismo è l'essenza stessa di tali regimi?«Sì, in fondo alle élite fasciste occorrevano dei nemici utili all'innesco di un discorso, all'esplicitazione di una norma da seguire. Ma ciò non vuol dire che gli ebrei vennero scelti per caso. Il contesto delle relazioni con la Germania era importante, anche se la decisione italiana venne presa in modo autonomo. Non ci furono pressioni dirette, ma giocò il fascino esercitato dalla Germania nazista. Del resto, Mussolini leggeva attentamente i rapporti provenienti dalla Germania sulla funzione politica dell'antisemitismo». Come venne creata la "questione ebrea"?«Il problema della tradizione è importante. Vari Paesi europei come la Francia hanno conosciuto nel XIX  secolo movimenti politici di massa antisemiti. L'Italia non aveva sperimentato  l'antisemitismo politico. Esso esisteva nella società, ad esempio in certe frazioni cattoliche, nazionaliste o socialiste. Ma non esisteva un antisemitismo organizzato. Il regime fu costretto quasi a inventare una tradizione, prendendo a prestito elementi presenti in Francia e soprattutto in Germania».Lei sottolinea che la comunità ebraica italiana era relativamente ben integrata rispetto alle consorelle europee...«Si trattava in effetti di una specificità in Europa. La comunità ebraica italiana era particolarmente ben integrata, come mostra ad esempio l'indicatore dei matrimoni misti, molto più numerosi che negli altri Paesi. Ad attestarlo sono anche gli archivi delle organizzazioni ebraiche». Per imporre le leggi razziali alla società, il regime dovette  superare l'ostacolo della Casa reale e soprattutto quello della Chiesa. Cosa accadde? «Il regime temeva le reazioni di queste due istituzioni. Il re emise qualche protesta di principio, ma accettò le leggi razziali abbastanza rapidamente, come aveva fatto con altre evoluzioni del governo fascista. Il regime aveva molto più da temere dalle reazioni della Santa Sede. Ciò che sappiamo è che Papa Pio XI era probabilmente più determinato ad opporsi alla svolta antisemita che parte del proprio entourage. Nonostante la malattia, il Papa incaricò il padre gesuita John La Farge di curare una bozza d'enciclica sull'unità del genere umano e di condanna dell'antisemitismo. Dopo la morte di Pio XI, l'enciclica resterà però nei cassetti e non verrà utilizzata».Al contempo, dalla Santa Sede giunsero lo stesso parole di condanna.«Il Papa emise delle proteste pubbliche, benché davanti a platee relativamente contenute, come ad esempio quando incontrò del settembre 1937 dei pellegrini belgi, affermando: "Siamo spiritualmente tutti semiti".  Affermazioni come queste scatenarono l'ira di Mussolini. Nell'entourage del Papa, ci furono interlocutori che affrontarono col regime la questione delle leggi razziali. Questi interlocutori si limitarono alla questione dei matrimoni misti. Ma ciò non impedirà poi al regime di emanare lo stesso il loro divieto. Complessivamente, l'opposizione della Chiesa rimase limitata. La Chiesa non venne coinvolta durante l'adozione delle leggi razziali, ma in seguito, a partire dal 1938, il regime cercherà di presentare le leggi razziali come un elemento di continuità rispetto a certe tendenze antisemite precedenti esistenti in ambienti cattolici».Fino a che punto Mussolini fu in prima persona antisemita?«In generale, fu una figura ambigua e ondivaga, ma fu anche certamente antisemita. È lecito interrogarsi sulle ragioni che lo spinsero per oltre 15 anni a tenere celato quest'antisemitismo, astenendosi da qualsiasi dichiarazione pubblica antisemita. È anche chiaro che il suo antisemitismo non ebbe nulla a che vedere con l'antisemitismo redentore e fanatico di Hitler. Mussolini aderì a un insieme di stereotipi ereditati da una certa cultura nazionalista, ma anche da una certa tradizione antisemita del movimento operaio».Nel suo saggio, numerosi titoli di capitoli portano dei punti interrogativi. Tante questioni restano dunque aperte?«Si tratta di questioni complesse. Ci si deve interrogare ancora, in particolare, sull'atteggiamento della società italiana rispetto all'antisemitismo. Si possono studiare le direttive provenienti dall'alto, le leggi e la loro applicazione, le reazioni dell'amministrazione e del partito, ma nel quadro di un regime dittatoriale cogliere i comportamenti della società è molto più difficile. Si è spesso detto che gli italiani furono in gran parte opposti alle leggi razziali, ma non abbiamo ancora studi sufficienti su questo punto».
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