venerdì 27 agosto 2021
La compositrice presenta il Festival di musica contemporanea, quest'anno interamente dedicato alla vocalità a cappella: «È in corso una vera e propria rinascita». Fondamentale la presenza del sacro
Lucia Ronchetti, direttore della Biennale Musica di Venezia

Lucia Ronchetti, direttore della Biennale Musica di Venezia - Vanessa Francia

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La voce come suono primario. Ma non da sola: con altre voci, esperienza strutturalmente collettiva. La coerenza della Biennale Musica 2021 immaginata da Lucia Ronchetti è di una radicalità spiazzante: solo musica vocale a cappella. Genere antichissimo, voci che cantano senza strumenti, con un presente sorprendentemente vivo. “Choruses”, che apre il 17 settembre con il Leone d’Oro a Kaija Sariaho, nel campo ristretto rivela una struttura molto articolata: temi sociali, reportage, esplorazioni drammaturgiche. In programma autori come David Lang, Luca Francesconi, Francesco Filidei, George Aperghis, Arvo Pärt, George Lewis, Valentin Silvestrov, tra gli esecutori i Neue Vocalsolisten (premiati con il Leone d’Argento), Theatre of Voices, Sequenza 9.3, Accentus, la Cappella Marciana. Ne parliamo con la compositrice romana, alla guida per un quadriennio del Festival internazionale di musica contemporanea.

Perché questa scelta?

«Questo festival è pensato come primo pannello di quattro su cui si articola la mia direzione artistica della Biennale Musica. Sentivo la necessità, non da autore ma da ascoltatore di musica contemporanea, di approfondire quattro repertori importanti sviluppatisi negli ultimi 30 anni: il primo è la musica vocale a cappella, attraverso solo pezzi di vaste dimensioni. Il secondo, nel 2022, sarà dedicato al teatro strumentale, un genere cresciuto al di fuori della scena operistica e che non ha ancora avuto in Italia la necessaria attenzione. Il terzo, il cui titolo sarà “Micro-music”, avrà al centro la musica che passa attraverso un microfono: una analisi del suono registrato, amplificato, diffuso e trattato. Ormai viviamo in un contesto in cui la musica passa sempre per un microfono e un altoparlante. E infine un festival apparentemente più tradizionale, ma penso sia mancato un focus sulla nuova musica assoluta. Orchestra e quartetto d’archi sono organici irrinunciabili. Non sarà un programma facile, ma credo sia importante essere precisi ed emblematici nel concepire un festival “serio” che provi ad analizzare questa situazione».

Potremmo definirlo un polittico di “fondamentali”.

«Sono quattro temi legati, con gradi di evidenza diversa, non solo alla storia ma in particolare alla musica veneziana. Venezia, ad esempio, è stata una delle città con il maggiore numero di organi. L’organo è il primo strumento di amplificazione e diffusione del suono nello spazio che sia stato concepito: e questo è il tema di “Micro-music”… Per quanto riguarda quest’anno, la musica a cappella nel Cinquecento ha in Venezia, e in particolare in San Marco, il centro principale in Italia. Per tutti i compositori che scrivono musica vocale oggi quella scuola è una realtà viva. Ma a rendere possibile quel momento magico è stato anche il mélange di committenza pubblica e privata proprio della Serenissima. Perché un compositore senza le condizioni adeguate non può creare capolavori, e ciò vale anche oggi. Spero che il festival dimostri ai responsabili politici che questa è la condizione che deve tornare in Italia».

Nel nostro paese il “compositore in residenza” è una rarità.

«La Biennale di Venezia però attraverso il programma di Biennale College ha creato qualcosa di molto simile all’idea di residenza. Si seleziona un gruppo di giovani, compositori e musicisti, che lavora per alcune settimane con dei tutor. Ho voluto investire molto su questo e nel festival ascolteremo musica scritta, ma anche installazioni sonore e performance vocali sperimentali “nate” a Venezia nell’ambito del College».

Nella storia la musica vocale ha dato corpo alla poesia e alla liturgia. I brani in programm a ampliano temi e fonti. Cambia qualcosa in termini di strategie compositive?

«Il festival è tutto costruito su presenze testuali estremamente eterogenee. Il testo per me è già materiale sonoro, così era anche per Zarlino e Willaert: è la struttura della parola a generare il suono. Trovo ad esempio particolarmente interessante il caso delle processioni popolari, a Venezia importanti e diffuse, basate su “frasi corali” che esprimono nella loro globalità l’intenzione personale di ogni partecipante. Per questo abbiamo commissionato a Marta Gentilucci una composizione in forma di processione corale. Gentilucci ha scelto di fare riferimento alla prassi tradizionale della voce guida alla quale, come nel coro greco, tutti rispondono, e ha convocato quattro poetesse – Elisa Biagini, Irène Gayraud, Shara Mc-Callum, Evie Shockley – non solo per scrivere il libretto ma per condurre in prima persona la processione».

Nel lavoro di Gentilucci c’è la dimensione urbana. La sound artist Christina Kubisch realizzerà una installazione nella basilica di San Marco insieme alla Cappella Marciana. C’è un rapporto privilegiato tra vocalità e spazio?

«Il rapporto è duplice. Certamente gli spazi hanno generato la possibilità di nuove scritture, come storicamente è il caso di San Marco, ma da sempre la voce ha saputo generare nuovi spazi. E questo è particolarmente vero per la musica sacra rispetto all’architettura».

Tra voce e sacro c’è una correlazione stretta fin dall’alba della musica. Quanto è forte questo legame oggi?

«Il rinascimento della musica vocale a cappella muove dagli anni 60 quando alcuni ensemble hanno esplorato la musica sacra del passato. Allo stesso tempo si trovavano in un contesto di creazione contemporanea che tendeva a criticare l’impegno dei compositori nella sacralità. Nel tempo invece si sono sviluppate tante forme legate alla vocalità contemporanea che vi fanno riferimento. Alcuni grandi compositori di musica vocale oggi si dichiarano apertamente credenti. Altri fanno riferimento alle sacre scritture in quanto parte fondamentale della storia e della drammaturgia personale: temi come colpa, sacrificio, redenzione restano centrali. Così come molti autori tornano a lavorare sul sacro nel termine più ampio della parola. Questa pandemia ha fatto capire a tutti la fragilità propria della natura umana. Molti compositori sono tornati a riflettere sul motivo della propria esistenza: una riflessione che sembra esprimersi più naturalmente con mezzi e organici vocali».

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