martedì 22 dicembre 2015
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Ormai una ventina d’anni fa, lo scrittore ed enigmista Giampaolo Dossena proponeva, tra il serio e il faceto, il seguente esperimento: «Fin che è vivo un vostro nonno, provate a sibilargli 'T’amo pio bove', mentre si sta assopendo sulla poltrona presso il caminetto, la papalina in capo, il plaid sulle ginocchia. Vedrete il vegliardo riscuotersi, lo udrete balbettare 'e mite un sentimento' con quel che segue proprio come un robot che riceve l’input, come una macchinetta dove avete schiacciato il bottone giusto».Non c’è dubbio, infatti, che Il bove di Giosuè Carducci sia stato per molto tempo al primo posto tra le poesie che si facevano leggere a scuola ai ragazzi e che si facevano imparare a memoria. Nel 1994 Dossena si divertiva a parodiarla, insieme a testi celebri di altri autori, riscrivendola 'al contrario', cioè invertendo i significati dei singoli termini, rivitalizzando un gioco, quello della 'poesia antonìmica', proposto per la prima volta nel 1973 da Marcel Benabou nel volume che codificava la 'letteratura potenziale' del gruppo francese dell’Oulipo. Così Dossena pubblicava da Rizzoli un volumetto intitolato T’odio empia vacca, appunto l’opposto di 'T’amo pio bove'. Ciò vuol dire che oggi Carducci è buono soltanto per gli sfottò? Se fino a qualche decennio fa la conoscenza (anche mnemonica) dei testi di questo autore rappresentava un passaggio inevitabile nella formazione degli studenti italiani, è seguita una fase (che data dagli anni Settanta- Ottanta in poi) in cui sul primo vate dell’Italia unita sembrava essere calato il velo dell’oblio. La sua figura, da nume del pantheon letterario nazionale, pareva svilita ad anacronistico rudere di un tempo inattuale. Tale 'abbandono' di Carducci da parte dei critici e dei lettori è testimoniato dallo spazio sempre più risicato che alle sue liriche viene riservato nei manuali scolastici di letteratura italiana.    Tuttavia l’impressione è che siamo passati da un eccesso all’altro, e dunque - dopo alcuni decenni di dimenticanza - appare oggi giunto il momento per riscoprire Carducci e per riappropriarci di un patrimonio letterario che mantiene diversi motivi di interesse. Che questo processo di svalutazione sia ingiusto è testimoniato da una recente monografia di Francesco Benozzo: Carducci (Salerno Editrice, pp. 304, euro 16). L’autore - che insegna Filologia romanza all’Università di Bologna (lo stesso ateneo presso cui il poeta romagnolo fu docente) - ne delinea la figura di poeta, professore e filologo analizzandone puntualmente gli scritti e ripercorrendone la biografia. Ne risulta un ritratto mosso e sfaccettato, che restituisce tutta la complessità del suo lavoro letterario. Innanzitutto è innegabile il suo ruolo storico: potremmo affermare che sarebbe molto difficile comprendere il clima ideologico e culturale dei decenni post-unitari senza conoscere Carducci. La sua parabola intellettuale e politica è particolarmente significativa: pervaso in gioventù di spiriti giacobini, repubblicani e democratici (nel 1863, a 28 anni, scriveva il violento 'Inno a Satana'), in età matura diventa convinto sostenitore della monarchia sabauda (al 1878 data l’ode 'Alla Regina d’Italia').  Sul piano prettamente letterario, inoltre, la sua perizia tecnica come poeta è assai scaltrita: siamo di fronte a un versificatore che riepiloga e insieme innova (si pensi alle Odi barbare) le convenzioni metriche e la koinè linguistica della tradizione classicistica: anche da qui il conferimento del Nobel nel 1906. Infine, se siamo capaci di sfrondare Carducci dei suoi aspetti più retorici e ridondanti (che certo non mancano, né potrebbero mancare in un intellettuale tanto immerso negli umori e nella cultura della propria epoca, così lontana dalla nostra), possiamo riconoscere nella sua personalità di uomo e di poeta una sorprendente capacità di aprirsi ai temi e alle emozioni tipiche del Decadentismo, mostrandoci un profilo e una sensibilità di grande e sofferta modernità.

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