lunedì 9 gennaio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI

Una grande affinità spirituale e la condividione di un’emergenza educativa sono l’eredità del primo incontro interculturale tra cattolici e buddhisti delle scuole shingon e soto-zen che hanno promosso a fine 2011 in Giappone la fondazione Meeting di Rimini e l’Ambasciata italiana. I colloqui si sono tenuti a Tokyo, sul monte Koya - la montagna sacra dei cento templi Shingon - e a Fukay, dove sorge l’Eihei-ji, il tempio in cui si formano i monaci Soto-Zen. «Un avvenimento di amicizia»: ne ha parlato così don Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità sacerdotale di San Carlo Borromeo. «L’amicizia é un piccolo seme che può diventare un grande albero» ha aggiunto, ricordando che quest’incontro è figlio dell’amicizia tra don Luigi Giussani e Shodo Habukawa, nata quasi per caso 24 anni fa e confermata dalla partecipazione di una delegazione shingon, ogni anno da allora, al Meeting di Rimini. Questo legame conferma il giudizio di Giussani, ricordato dalla presidente del Meeting Emilia Guarnieri: «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo». Nel corso dei colloqui, i monaci buddhisti hanno denunciato il calo di religiosità del popolo giapponese indicando come soluzione «il cambiamento di noi stessi perché in questo modo siamo in grado di cambiare anche quello che ci sta intorno».

I rametti nelle mani del bonzo fendono il fumo, troppo rapidi per violare il segreto Shingon. Intorno alla montagna sacra è ancora buio. Storditi dall’incenso e confusi nella luce tremula delle candele, i monaci ripetono il goma, la cerimonia del fuoco, da un migliaio d’anni. Mantra e crepitii, vapori odorosi e fuliggine che punge le narici, stuzzica la pelle. Ci culliamo coi bonzi, seguendo le mudra del celebrante, movenze esoteriche tramandate di maestro in allievo o più spesso di padre in figlio; anche nel buddhismo tantrico, oramai, si parla apertamente di casta. Mentre noi salmodiamo l’antica sutra, a centinaia di chilometri di distanza qualche milione di persone emerge dai vapori di un ramen per infilarsi in metropolitana e perdersi nella tastiera del cellulare o nell’ultimo manga, le nuove mudra di un popolo malato di solitudine. Qui, nei giorni scorsi, la Nintendo ha festeggiato la vendita della quattromilionesima console 3D. Non basta la geografia a misurare la distanza tra i grattacieli di Tokyo e le casette di legno del Kansai, tra le vetrine turbolussuose di Ginza e i templi del Koyasan. È la stessa distanza che separa un monastero zen, l’altra anima del buddhismo che vive nel respiro della natura, da Electric city, la jungla di neon della capitale, popolata di ragazzine (s)vestite come le eroine di anime e manga. Si dice che i giapponesi nascano shintoisti, si sposino cristiani e muoiano buddhisti. Forse è solo un modo per rinfacciare ai bonzi il costo dei funerali - tremila euro a monaco, trentamila a cerimonia, morire è l’investimento più importante della vita - ma fotografa l’imprinting animista e il sincretismo di fondo. «Da tempi ancestrali siamo un popolo di risicoltori - mi racconta Etsuro Sotoo, lo scultore della Sagrada Familia di Barcellona, convertitosi al cattolicesimo dallo shintoismo - e la nostra cultura è forgiata dal contatto millenario con una natura estrema. C’è la deificazione shintoista dell’albero ma anche il culto dell’impermanenza, cardine del buddhismo. Le case sono di legno e l’arte è un perenne riprodursi che tende alla perfezione. La vita è una continua sfida all’imprevedibilità della natura, che affrontiamo con le armi della prevenzione, dell’attaccamento alla comunità e della disciplina...»Qualche giorno fa, Sotoo mi ha accompagnato al Meiji Jingu, il tempio shintoista di Tokyo dove lo spirito divino è ovunque, negli alberi e nell’acqua, nella famiglia imperiale e nei bambini che corrono a festeggiare il Sichi-go-san, una specie di prima comunione che si ripete a tre, cinque e sette anni. Quel pomeriggio il tempio era stato affittato a una corporation e al centro dell’area sacra, al ritmo scandito dal monaco, attempati manager in grisaglia si flettevano pregando per la buona riuscita del business. Chissà a quante cerimonie analoghe ha presenziato Masataka Shimizu, il presidente della Tepco, prima di andare in tivù a scusarsi per «aver fatto crollare la fiducia dell’opinione pubblica nell’energia nucleare». È stato l’epilogo di uno tsunami che ha fatto 20 mila morti e ha provocato il più grave incidente nucleare dopo Chernobyl. In verità, si è limitato a propiziarlo, perché «le mancanze della Tepco hanno aumentato la gravità dell’incidente», recita un rapporto del governo nipponico. Eppure le scuse pubbliche di Shimizu hanno funzionato, il Giappone continuerà a produrre energia nucleare e la Tepco a gestirla. In questo paese il pentimento pubblico non funziona solo in tv, ma anche nelle aule di giustizia, dove vale come attenuante. Inconcepibile, per noi occidentali. Ed infatti, fin dal ’500 il problema degli europei è stato quello di comprendere che ogni giapponese «si attiene a un rigido codice di etichetta che si applica a ogni aspetto della vita» come scrive Vittorio Volpi raccontando di Alessandro Valignano, il visitatore della Compagnia di Gesù cui l’istituto italiano di cultura di Tokyo ha dedicato un convegno e un libro. La signoria delle forme, che decodifichiamo come un esasperato senso estetico, riflette in realtà un rassicurante mandala sociale, una cosmogonia in cui l’individuo è tutt’uno con il suo ruolo nella comunità. Indecifrabile per la logica aristotelica, ma chiarisce perché l’incidente più grave dell’ultimo quarto di secolo abbia ferito i giapponesi nell’amor proprio, svelando la vulnerabilità di un sistema di prevenzione che era il brand del Paese, e non abbia provocato il rifiuto del nucleare. Qui tutti sanno che la catena alimentare è contaminata eppure ti rispondono Shikata ga nai (non c’è nulla da fare).Il “Financial Times” attesta «l’assenza di un consenso scientifico e sociale sul rischio da radiazioni»; nelle scorse settimane, il governo ha alzato i livelli di esposizione alle radiazioni per i bambini in età scolare senza che nessuno scendesse in piazza. «Incontro molte persone in pena per i più diversi motivi - spiega il monaco Chiun Takahashi - ma non mi chiedono consigli sulla radioattività». Fatalismo o culto dell’impermanenza? Pio d’Emilia è convinto che il Dna dei giapponesi c’entri fino a un certo punto. In Tsunami nucleare (edito da Manifestolibri) il corrispondente di Sky spiega che senza «manipolazione informativa» il Paese di Hiroshima e Nagasaki non avrebbe mai accolto il nucleare civile.

Tuttavia, dopo Fukushima è bastato che i media rispolverassero la vecchia lezione sull’atomo "governato" e il resto ce l’ha messo il giapponese medio che la scrittrice Randy Taguchi raffigura così: «Ci riteniamo un popolo virtuoso capace di impegnarci a fondo in ogni tipo di missione, al di là del fine e delle motivazioni». L’icona di questo popolo è Yasuhiro Sonoda, il deputato che ha bevuto in mondovisione l’acqua decontaminata del reattore danneggiato. Un samurai, certo, ma non un marziano agli occhi di chi, immedesimandosi nella natura e nella collettività, trova risposta alle sue grandi paure, i terremoti e la solitudine. In una pagoda di Eihei-ji, Shobo Kishida mi ha insegnato come si beve il tè "sentendo" le foglie, la pianta, la terra… Il Soto Zen non contempla l’esistenza di un Dio trascendente ma è sempre meglio che venerare un castagno: «Il buddhismo shingon è forse più affine al cristianesimo - conferma Silvio Vita, direttore della Scuola italiana di studi sull’Asia orientale di Kyoto - perché mantiene il riferimento a una divinità cosmica. Inoltre, nei secoli le divinità shintoiste sono state integrate nel pantheon buddhista, ma oggi la vera religione giapponese è rappresentata dal sincretismo, un supermercato della fede dove prendi quello che ti serve. Le nuove sette prosperano, le scuole tradizionali segnano il passo». Nella quiete del Koyasan, un bonzo lamenta che i giovani «non sanno più scrivere». Si riferisce ai kanji, gli ideogrammi. Può sembrare l’ubbia di un vecchio asceta, se non che per i buddhisti la calligrafia è una delle vie della felicità e l’abbandono scolastico - vera piaga, dopo denatalità e suicidi - fa crollare il mandala sociale. Vita annuisce: «È lo stigma a mantenere uniti e onesti e i giapponesi lo apprendono da bambini. Per questo fanno paura la fuga da scuola, il bullismo, le mode, il materialismo dilagante…» Noi la chiamiamo questione educativa.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: