
Un allenamento del Giallo Dozza, la squadra di rugby dell’omonimo carcere bolognese.
Fuori, in questo contesto, è una parola che va oltre l’ordinario. Fuori è ciò che era prima, è il passato ma non necessariamente è il futuro. Ecco perché, nelle scorse settimane, l’eccezionalità del termine stava proprio nella sua accezione classica: un test match da giocarsi presso il campo di via del Gomito a Bologna – si parla di rugby – e pertanto fuori casa. Una trasferta nello sport rappresenterebbe la normalità, se il campo in questione non fosse quello interno al carcere bolognese della Dozza e la squadra ospite non fosse La Drola, il quindici nato nel penitenziario Lorusso-Cotugno di Torino, chiamato a sfidare la formazione dell’istituto bolognese, il Giallo Dozza.
Una giornata unica, la prima partita (terzo tempo incluso) fra squadre costituite all’interno di due carceri. Ha vinto il Giallo - che così si chiama perché il cartellino giallo, nella palla ovale, indica l’espulsione temporanea, quella che per un certo tempo estromette i giocatori dalla mischia - ma ha soprattutto vinto l’idea, l’incontro di due progetti simili che hanno portato, grazie al sostegno della Fir, all’iscrizione delle squadre al campionato di Serie C2 federale e stanno dimostrando nel tempo la loro efficacia sul miglioramento della quotidianità all’interno dei penitenziari: “Ovale oltre le sbarre”, si chiama quello di Torino, “Tornare in campo” quello di Bologna. Un singolare derby, un anticipato e inatteso regalo di Natale.
Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, ripeteva Nelson Mandela – che l’alienazione della detenzione l’ha conosciuta a lungo – e, di sicuro, all’interno di mura, cancelli e sbarre, modifica percezioni e prospettive. Torino ha rappresentato un progetto pilota, Bologna ha seguito la rotta e, siccome ciò che è bene per i detenuti è bene per l’intero penitenziario e, in termini rieducativi, per la società una volta che si troverà a reinserire chi ha scontato la pena, un giorno la direzione della Dozza ha deciso di riunire i compagni di squadra nella medesima sezione dell’istituto. Per creare condivisione, per favorire l’armonia, perché nella eterogeneità di storie personali comunque segnate dal dolore, imposto e ricevuto, l’umanità è un segno di coraggio. Il rugby in questo senso ha portato i suoi valori e le sue regole ad incidere positivamente in microcosmi complessi e difficilmente immaginabili dall’esterno. Instilla rispetto e favorisce l’integrazione, e non è un concetto banale considerando che la convivenza forzata e ristretta generalmente non porta alla condivisione, ma alla nascita di gruppi e clan.
Lo ha raccontato bene Antonio Falda, in un libro intitolato Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre (Absolutely Free): i benefici si sono potuti apprezzare appunto a Torino come a Bologna, a Frosinone come a Bollate, a Firenze come a Monza. Non è un caso. E se il rugby ha portato frutti insperati, per la sua specificità e per come sublima l’aggressività sul campo, lo sport in tutte le sue declinazioni aiuta l’ambiente delle carceri a ricercare quello spirito di rinascita e redenzione che dovrebbe essere alla base della detenzione. E lo sport, dove regole, limiti e disciplina sono finalizzate ad uno scopo e influiscono sull’interpretazione di ogni realtà, ha un impatto a livello individuale e sociale fortissimo per fornire una seconda opportunità a chi è incappato nel cartellino giallo che l’ha estromesso dalla possibilità di essere una persona libera.

Da anni, ad esempio, ogni settimana due squadre della categoria Open del Csi Milano si trovano a giocare a San Vittore e nel carcere di Monza e, a macchia di leopardo nei penitenziari i cui spazi - perché di frequente è anche una questione banalmente ma irrimediabilmente logistica, essendo le strutture italiane vetuste e cronicamente prive di fondi - lo consentono, si può verificare come le iniziative sportive siano state introdotte proprio grazie ai loro sforzi. Pallavolo, corsa, pallacanestro, persino il pugilato: da Sassari a Cremona, dalla Cagnola di Lodi alle carceri minorili del Pratello a Bologna o di Nisida, dove Fondazione Milan ha finanziato un percorso formativo per allenatori riservato ad alcuni ragazzi ospiti della struttura. Sono solo alcuni dei tentativi, più o meno riusciti, certo mai negativi. Dopo tutto, in questi casi il gioco – letteralmente – non solo vale la candela, ma è anche uno dei pochi modi per non far spegnere la fiammella di un domani diverso per chi, oggi, un futuro non ce l’ha.