mercoledì 28 dicembre 2016
Si moltiplicano le squadre nate in carcere e che ora partecipano a campionati regolari, andando perfino in trasferta. Imparando a confrontarsi con la società «fuori».
Un allenamento del Giallo Dozza, la squadra di rugby dell’omonimo carcere bolognese.

Un allenamento del Giallo Dozza, la squadra di rugby dell’omonimo carcere bolognese.

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Fuori, in questo contesto, è una parola che va oltre l’ordinario. Fuori è ciò che era prima, è il passato ma non necessariamente è il futuro. Ecco perché, nelle scorse settimane, l’eccezionalità del termine stava proprio nella sua accezione classica: un test match da giocarsi presso il campo di via del Gomito a Bologna – si parla di rugby – e pertanto fuori casa. Una trasferta nello sport rappresenterebbe la normalità, se il campo in questione non fosse quello interno al carcere bolognese della Dozza e la squadra ospite non fosse La Drola, il quindici nato nel penitenziario Lorusso-Cotugno di Torino, chiamato a sfidare la formazione dell’istituto bolognese, il Giallo Dozza.

Una giornata unica, la prima partita (terzo tempo incluso) fra squadre costituite all’interno di due carceri. Ha vinto il Giallo - che così si chiama perché il cartellino giallo, nella palla ovale, indica l’espulsione temporanea, quella che per un certo tempo estromette i giocatori dalla mischia - ma ha soprattutto vinto l’idea, l’incontro di due progetti simili che hanno portato, grazie al sostegno della Fir, all’iscrizione delle squadre al campionato di Serie C2 federale e stanno dimostrando nel tempo la loro efficacia sul miglioramento della quotidianità all’interno dei penitenziari: “Ovale oltre le sbarre”, si chiama quello di Torino, “Tornare in campo” quello di Bologna. Un singolare derby, un anticipato e inatteso regalo di Natale.

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, ripeteva Nelson Mandela – che l’alienazione della detenzione l’ha conosciuta a lungo – e, di sicuro, all’interno di mura, cancelli e sbarre, modifica percezioni e prospettive. Torino ha rappresentato un progetto pilota, Bologna ha seguito la rotta e, siccome ciò che è bene per i detenuti è bene per l’intero penitenziario e, in termini rieducativi, per la società una volta che si troverà a reinserire chi ha scontato la pena, un giorno la direzione della Dozza ha deciso di riunire i compagni di squadra nella medesima sezione dell’istituto. Per creare condivisione, per favorire l’armonia, perché nella eterogeneità di storie personali comunque segnate dal dolore, imposto e ricevuto, l’umanità è un segno di coraggio. Il rugby in questo senso ha portato i suoi valori e le sue regole ad incidere positivamente in microcosmi complessi e difficilmente immaginabili dall’esterno. Instilla rispetto e favorisce l’integrazione, e non è un concetto banale considerando che la convivenza forzata e ristretta generalmente non porta alla condivisione, ma alla nascita di gruppi e clan.

Lo ha raccontato bene Antonio Falda, in un libro intitolato Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre (Absolutely Free): i benefici si sono potuti apprezzare appunto a Torino come a Bologna, a Frosinone come a Bollate, a Firenze come a Monza. Non è un caso. E se il rugby ha portato frutti insperati, per la sua specificità e per come sublima l’aggressività sul campo, lo sport in tutte le sue declinazioni aiuta l’ambiente delle carceri a ricercare quello spirito di rinascita e redenzione che dovrebbe essere alla base della detenzione. E lo sport, dove regole, limiti e disciplina sono finalizzate ad uno scopo e influiscono sull’interpretazione di ogni realtà, ha un impatto a livello individuale e sociale fortissimo per fornire una seconda opportunità a chi è incappato nel cartellino giallo che l’ha estromesso dalla possibilità di essere una persona libera.

Una ulteriore chiave è nell’agonismo, nel coinvolgimento di figure esterne, perché sono questi i progetti che stanno funzionando maggiormente. Avere un obiettivo, quello del risultato, costringe al gioco di squadra quotidiano anche nelle ore di reclusione: è ciò che, attraverso il calcio, sta accadendo al carcere delle Sughere di Livorno, dove la squadra Liberi Dentro da un anno ormai disputa un torneo cittadino. Li allena Paolo Stringara, ex calciatore di Bologna e Inter, anima dell’idea. Anche qui la differenza è nei volti, nella particolarità dell’evento: entrano in carcere le squadre avversarie e così, in campo, per i detenuti-atleti esiste la possibilità di tornare in contatto con una parte del mondo che è rimasto fuori, di risocializzare, di riattivare la consapevolezza che esiste un oltre, che c’è qualcosa d’altro. È l’esatto opposto dell’estremo rigore punitivo di chi vorrebbe la vita all’interno di un penitenziario paragonabile a un inferno. Perché emarginare è l’esatto contrario di rieducare. Dove oggi entrano le federazioni e i finanziamenti dello stesso Coni attraverso il progetto “Sport in carcere”, realizzato in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e che sta interessando gli istituti di Opera, Como, Padova, Solliciano, Trani, Secondigliano, Bari e delle Marche, già da tempo erano attivi gli enti di promozione sportiva ad attuare programmi autofinanziati, in accordo con le direzioni delle case circondariali.

Da anni, ad esempio, ogni settimana due squadre della categoria Open del Csi Milano si trovano a giocare a San Vittore e nel carcere di Monza e, a macchia di leopardo nei penitenziari i cui spazi - perché di frequente è anche una questione banalmente ma irrimediabilmente logistica, essendo le strutture italiane vetuste e cronicamente prive di fondi - lo consentono, si può verificare come le iniziative sportive siano state introdotte proprio grazie ai loro sforzi. Pallavolo, corsa, pallacanestro, persino il pugilato: da Sassari a Cremona, dalla Cagnola di Lodi alle carceri minorili del Pratello a Bologna o di Nisida, dove Fondazione Milan ha finanziato un percorso formativo per allenatori riservato ad alcuni ragazzi ospiti della struttura. Sono solo alcuni dei tentativi, più o meno riusciti, certo mai negativi. Dopo tutto, in questi casi il gioco – letteralmente – non solo vale la candela, ma è anche uno dei pochi modi per non far spegnere la fiammella di un domani diverso per chi, oggi, un futuro non ce l’ha.

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