mercoledì 7 aprile 2010
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«Penso a Israele, al tempo dei profeti: il popolo è depositario e custode della tradizione... ma si lascia anche offuscare da idoli seduttori, da facili chimere...». Andrea Dall’Asta, gesuita, direttore della Galleria San Fedele di Milano, riflette sul rapporto tra committente e artista. Perché nel vuoto lasciato dalla scomparsa di orizzonti comuni e nello sconcerto di un’estetica che ha attraversato il territorio della dissacrazione, da più parti ci si chiede dove stia la via maestra per ritrovare un orientamento, e si va facendo strada sempre più chiaramente l’idea che sia fondamentale la committenza, cioè la relazione che si instaura tra chi richiede l’opera (artistica o architettonica) e chi tale opera esegue. In che modo può meglio essere gestita la committenza oggi? il committente deve essere come in passato il singolo prelato o è meglio che coinvolga più soggetti, in certi casi intere comunità? Lo stato di ripulsa che si è registrato recentemente a fronte di opere importanti, come alcune nuove chiese, è dovuto a carenze culturali dei fedeli incapaci di comprendere il linguaggio attuale in cui si esprime l’estro creativo, a incapacità interpretativa dei progettisti o degli artisti, o a una committenza carente? Dall’Asta punta il dito sulla preparazione del committente: «Nel passato era abitato da una profonda spiritualità oltre che da una grande cultura. E aveva la capacità di creare una rete di molteplici interlocutori: artisti, teologi, maestranze... Oggi si muove per lo più da solo e senza particolari competenze: lo vediamo dalla scarsa qualità di molte opere. Credo inoltre che manchi una seria riflessione sull’immagine. Spesso l’immagine sacra, invece di indurre a riflettere sul senso profondo della vita e sulla rivelazione di un Dio che si fa presente nella storia, è attraversata da un freddo estetismo, da un vacuo e sterile pietismo, da figurazioni banali e scontate: da una drammatica assenza di contenuti. Troppo spesso nelle manifestazioni di arte sacra troviamo immagini che vivono fuori dalla storia, offrendo troppo facili rassicurazioni». Ma che c’è di sbagliato nella ricerca di una rassicurazione? «Penso sia importante distinguere tra ciò che è consolatorio e ciò che consola. Consolatorio è un po’ come dare una pacca sulle spalle mentre ci si volta dall’altra parte, limitarsi a un atteggiamento che non aiuta ad assumere la responsabilità etica della propria vita. Fa vivere in un mondo altro, senza chiedere al fedele di incarnarsi veramente in "questo" mondo per cambiarlo e trasformarlo. Penso a tante immagini mielose, dolciastre, senza presa sulla vita e sulla storia. Consolatore è invece l’atteggiamento di chi, mosso da un vero incontro con l’altro, si rivolge al mondo con uno sguardo di misericordia, per abitarlo e cambiarlo dall’interno. Oggi, mi sembra che il committente sia impreparato a cogliere il significato di questa sfida e non riesca a interrogasi sul senso profondo di quanto si deve chiedere all’artista: "quale esperienza spirituale desideri comunicare? In che modo l’immagine mi aiuta a vivere un’esperienza di preghiera, di relazione con Dio e con gli altri?"».Una committenza allargata a più voci può sopperire? «Sulla base delle procedure vigenti e delle attuali problematiche è fuori di dubbio che la committenza ecclesiastica è rappresentata dal vescovo diocesano o da un suo delegato - specifica Francesco Buranelli, segretario della Pontificia Commissione Beni Culturali della Chiesa - ma forse non è sbagliato che vi sia un più ampio coinvolgimento di professionisti e fedeli, così da evitare che vi siano manifestazioni di insoddisfazione o dissenso dopo che l’opera è stata eseguita. Nella storia il rapporto tra committente e artista è sempre stato diretto, immediato ma non sono mancati casi problematici. Tra i tanti, ricordo quello riguardante l’intervento di Caravaggio nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo a Roma: morto il committente, gli eredi non accettarono l’opera per il suo eccessivo realismo e il pittore preparò nuove tele. Oggi la situazione è differente: Paolo VI, nel suo celebre discorso agli artisti, ha riconosciuto l’autonomia espressiva degli artisti rispetto al committente. Il problema diventa quindi più complesso e articolato; per quel che riguarda le opere con finalità liturgica bisognerà raggiungere una condivisione di obiettivi basata su una approfondita conoscenza delle fonti, pur nel rispetto dell’autonomia espressiva dell’artista. Committente e artista devono compiere un cammino comune: personalmente ho sperimentato questa procedura quando, ero direttore dei Musei vaticani, curai la sistemazione della nuova entrata. Il risultato è stato molto positivo; con l’artista o l’architetto si devono discutere a fondo tutti gli aspetti dell’opera, sul piano tecnico,  teologico, filologico ed estetico. Senza evitare il sereno confronto; anche il rapporto tra Giulio II e Michelangelo ha avuto momenti di conflittualità, ma l’esito è stata la Cappella Sistina».Che sia anzitutto "la committenza a fare l’architettura" è un fatto assodato secondo l’architetto Domenico Bagliani, docente al Politecnico di Torino e da trent’anni membro della Commissione liturgica dell’arcidiocesi piemontese: «Troppo spesso la Chiesa e l’architetto o l’artista non parlano la stessa lingua. E il discorso interrotto tra Chiesa e cultura moderna ha lasciato un vuoto in cui si sono inserite progettazioni mediocri», per cause spesso banali: «committenti mai sfiorati dal dubbio chiamano i professionisti più comodi, o perché più prossimi, o perché rispondenti al proprio gusto e alla propria cultura, a volte modesta». Allargare il dialogo a più soggetti può aiutare? «Dipende. A me è capitato negli anni ’70 di realizzare (con i colleghi Bellezza, Corsico e Roncarolo), grazie al sostegno di un parroco sensibile e nel clima del fermento post conciliare, un’importante opera nella neobarocca chiesa di San Giovanni Batista di Savigliano (Cn): abbiamo ruotato la disposizione dell’assemblea di 90°, così che potesse farsi fisicamente prossima all’altare, e posto un tabernacolo molto ben disegnato al posto del vecchio altare. Il parroco ha dovuto faticare molto per far capire ai fedeli il significato dell’opera che, cambiato il parroco, è stata negletta. Si vive un clima di smarrimento, beninteso, favorito anche dall’atteggiamento degli artisti».«Non v’è dubbio che il progetto e la realizzazione di una nuova chiesa per una comunità parrocchiale debba vedere un adeguato e costante coinvolgimento della comunità - sostiene monsignor Giuseppe Russo, direttore del Servizio nazionale per l’edilizia di culto della Conferenza Episcopale Italiana -  sin dall’inizio, anche prima di affidare l’incarico di progettazione. Occorre che si stabilisca un vero e proprio dialogo tra comunità, parroco, vescovo e gli esperti che dovranno interagire nella progettazione: liturgista, architetto e artisti. Così la scelta dell’impianto liturgico e della linea architettonica della chiesa sarà il punto di arrivo di un fecondo confronto tra le diverse componenti coinvolte, nel rispetto, da un lato delle aspettative e delle indicazioni della committenza, dall’altro della competenza, della professionalità e della creatività dell’équipe di progettazione».
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