martedì 15 febbraio 2022
Arriva in libreria un vasto saggio di Roberto Carnero sullo scrittore che intreccia i temi della vita con quelli dell’opera
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) - archivio

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Nel 1996, Roberto Carnero - uno dei più prolifici critici militanti in attività - pubblicava un’interessantissima indagine su Guido Gozzano esotico. Appena due anni dopo era la volta di Lo spazio emozionale. Guida alla lettura di Pier Vittorio Tondelli. Li ricordiamo perché, col senno di poi, vi si poteva ricavare come un oroscopo di ciò che Carnero sarebbe stato. Prendete Guido Gozzano esotico, sorprendentemente affacciato, nella conclusione, su un confronto tra il poeta torinese e Hermann Hesse: a testimoniare già quella disposizione a comparare che per Edward Morgan Forster ( Only connect!) è l’unica vera qualità della critica. Quanto a Lo spazio emozionale, poi riproposto nel 2018 notevolmente accresciuto col titolo Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana, era già evidente il grande interesse per un narratore in cui le ragioni dell’opera e della vita s’intrecciavano di continuo. Cosa che, prima o poi, avrebbe costretto Carnero a fare i conti con lo scrittore che nel Novecento aveva più di ogni altro confuso quelle ragioni, facendo della propria esistenza un’opera aperta dal finale plurivoco (la morte violenta ancora avvolta dal mistero), secondo forse al solo Gabriele d’Annunzio, il quale per altro, in termini di estetizzazione della vita, non s’è di sicuro risparmiato. Arriva infatti domani in libreria nei Tascabili Bompiani, per il centenario della nascita (il 5 marzo), Pasolini. Morire per le idee( pagine 412, euro 14,00), che, ricorda lo stesso Carnero, nasce «dalla rielaborazione, dall’aggiornamento e dall’ampliamento di un fortunato saggio uscito (…) nel 2010 e più volte ristampato» di titolo analogo, che continua a valere come «una introduzione complessiva » all’autore. Avendo bene in mente gli esempi felici di Nico Naldini ed Enzo Siciliano, i capitoli sono qui proposti secondo un metodo «a metà tra il tematico e il cronologico »: nel senso che, ferma restando la scansione lineare tipica d’ogni approccio storico, Carnero decide di soffermarsi, di volta in volta, «sulle opere ritenute maggiormente significative in relazione all’argomento trattato», con un’attenzione che non è «necessariamente proporzionale alla loro rilevanza nel corpus pasoliniano». Il critico si fa subito la domanda giusta, l’unica ineludibile: che cosa ha di così speciale Pasolini, «tanto da aver determinato una fioritura critica quale pochissimi altri autori italiani del secondo Novecento possono vantare»? Carnero non ha dubbi: quand’anche non fosse stato «lo scrittore italiano più importante del secondo Novecento», resterebbe senz’altro «il più importante intellettuale italiano». Senza dire della sua assoluta unicità, tale per almeno due ragioni: prima di tutto «la sua straordinaria capacità di cimentarsi su più fronti e in più generi», «dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica di tipo più filologico», dentro «un discorso creativo aperto e mobile », che continuamente si rinnova. In secondo luogo quel coraggio di affermare senza compromessi le sue brucianti verità, sollevando ogni volta domande imbarazzanti e intollerabili per il Potere, ma cruciali e ineludibili, acquistando un ruolo e un’importanza civile che travalica i meri ambiti della cultura. Non c’è grande tema del secolo scorso che non abbia toccato: «il fascismo e la Resistenza, la poli- tica del dopoguerra, l’avvento del neocapitalismo nella fase del boom economico, la trasformazione sociale della borghesia e del proletariato, il Sessantotto e il dramma della 'strategia della tensione'». Ma da marxista critico convertito a Gramsci (seppure sempre più 'empirista eretico') e da letterato finissimo qual era (ammirato da Gianfranco Contini e allievo di Roberto Longhi) fu anche sensibile al rapporto tra le forme e la società: come testimonia la sua militanza di formidabile critico letterario e di originale storico e sociologo della lingua. Per esempio, relativamente alla cosiddetta questione dell’omologazione, sulla quale, come ben documenta il medesimo Carnero, tra il 1964 e il 1975 fu tutt’altro che schematico: passando da una valutazione non totalmente negativa del nuovo italiano nato dalla televisione e diventato finalmente lingua nazionale a un pessimismo sempre più cupo e allarmato, che l’avrebbe portato agli appelli per la preservazione dei dialetti, ormai cancellati dal rullo compressore dell’omologazione. Che il critico ami Pasolini, che non abbia mai smesso di frequentarlo e rileggerlo, è fatto evidente e da lui espressamente ammesso. Un dato importante del libro è rappresentato però dalla volontà di decostruirne il mito, «di non fargli sconti», di rifiutarne l’agiografia, non meno criticamente pericolosa della demonizzazione che ne hanno fatto talvolta i detrattori. Seppure non siano mancate, tra questi ultimi, critiche assai acute - poco importa se non condivisibili - come quella di Giovanni Raboni, che Carnero stranamente non discute, il quale sosteneva che, paradossalmente, Pasolini fosse stato un poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filologia come nel cinema, tranne che nella poesia. Avrei anche letto con piacere, quanto al postumo Petrolio, un riferimento al per me imprescindibile Luigi Baldacci, il quale si faceva forte di un altro paradosso: che il romanzo incompiuto di Pasolini, il Satyricon di «un moralista dannato», fosse in realtà quello «letterariamente più risolto», per il fatto che «porta a un’incandescenza fredda tutti i problemi di scrittura e di struttura che già l’autore di Teorema si era posti nel rinunciare alla cifra facile di Ragazzi di vita e di Una vita violenta ». Notazione non da poco: tanto più che Carnero, liquidando Petrolio in così poche pagine, sembrerebbe pensarla in modo opposto, facendo sua l’idea di Bruno Pischedda che si tratti d’un romanzo consustanzialmente incompiuto e che tale sarebbe rimasto anche se Pasolini non fosse morto. Dovremmo ancora dire dell’inattualità programmatica di Pasolini, di quella sua radicale disposizione di parresiasta (nel senso di Foucault), propria di chi cioè, senza calcoli, «dice tutto ciò che si deve dire, semplicemente perché è la verità». Ci limitiamo ad aggiungere che non era facile scrivere un ennesimo libro su Pasolini uscendone indenni, per di più riformulando con grande limpidezza tutte le questioni che era necessario risollevare.

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