domenica 26 marzo 2017
La crisi ha insegnato a cercare nuove vie e soluzioni, anche al di fuori dei teatri. Cinque trentenni maestri del palcoscenico raccontano come pensare in modo nuovo (e sostenibile) l’opera.
La “Norma” di Nicola Berloffa a San Gallo (Svizzera).

La “Norma” di Nicola Berloffa a San Gallo (Svizzera).

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L’idea è quella della bottega. «Perché il mestiere di regista si impara sul campo », concordano Fabio Ceresa e Federico Grazzini. Un luogo dove ci si sporca le mani con il lavoro, quello artigianale, «facendo non solo il regista, ma anche l’attrezzista, il macchinista e a volte pure il bigliettaio» racconta Gianmaria Aliverta. «Oppure lo scenografo», sorride con le mani sporche di vernice Fabio Cherstich. Perché «va bene la teoria, ma quello che serve davvero è il confronto con il palcoscenico», interviene Nicola Berloffa. Cinque nomi, la nuova generazione dei registi lirici italiani: 33 anni il più giovane, 36 il più anziano. «A 35 anni in Italia sono considerato un regista giovanissimo mentre per Paesi come la Germania o l’Inghilterra non lo sono affatto», spiega Federico Grazzini, nato a Fiesole nel 1982 e un diploma alla Paolo Grassi di Milano.

Nuove leve che incalzano la generazione dei quarantenni, di Damiano Michieletto, di Leo Muscato, di Francesco Micheli. Registi che guardano all’estero e che si ispirano più a Ken Russel e Peter Sellars piuttosto che a Strehler e Zeffirelli. «Molte operazioni contemporanee che oggi sembrano innovative in realtà si appoggiano alle rotture che alcuni hanno avuto il coraggio di fare anni fa», dice Fabio Cherstich nato ad Udine nel 1984. Il diploma alla Paolo Grassi di Milano poi il lavoro con Giorgio Barberio Corsetti e Andrée Ruth Shammah «e una mia compagnia di performer e danzatori in Belgio, paese al quale, insieme alla Germania, guardo sempre con molto interesse, mosso dalla curiosità di allargare i miei orizzonti». Una scelta di campo estetica, ma anche di opportunità. Una scelta a volte obbligata, perché secondo Grazzini «in Italia, dove si tende a privilegiare i registi più vecchi, il teatro lo può fare soprattutto chi può permetterselo avendo le spalle coperte economicamente». E se in Italia «un giovane viene visto con diffidenza all’estero conta il talento. Tanto che per quel che riguarda contratti e cachet non c’è differenza tra un giovane regista o un nome affermato, tutti sono sullo stesso piano», racconta Nicola Berloffa, nato a Cuneo nel 1980.

«Quando ti presenti per un’audizione i teatri chiedono cosa hai fatto, con chi hai lavorato. Ma da qualche parte si dovrà pur iniziare», riflette Gianmaria Aliverta, classe 1984, cresciuto a Nebbiuno sul Lago Maggiore «dove collaborando alla pro loco mi sono costruito una competenza organizzativa». Che unita agli studi musicali in conservatorio gli ha permesso di inventarsi l’associazione Voce all’opera «per avere la possibilità di esprimermi e di far esprimere i miei coetanei appassionati di lirica. Facciamo audizioni, ma non chiediamo il curriculum, cerchiamo il talento». Aliverta ha iniziato come cantante, «ma poi ho capito che la mia strada era quella della regia: un mestiere che ho imparato sul campo, senza scuole. Per pagare i miei spettacoli ho fatto il cameriere e con i soldi guadagnati costruivo il budget per gli allestimenti di Voce all’opera ». Un’esperienza unica nel suo genere, che ha prodotto spettacoli vincenti «con la formula dell’opera low cost, che vuol dire avere soprattutto idee: budget di cinquecento, mille euro per le scenografie, una piccola orchestra, cantanti e direttori che dopo aver debuttato con noi oggi sono in cartellone nei grandi teatri». Cosa che capita anche ad Aliverta che oggi firma regie per il Maggio musicale fiorentino e la Fenice. Dove applica la formula dell’opera low cost. «Quando ho fatstigio to Mirandolina di Martinu a Venezia e si sono presentate difficoltà organizzative mi è servita l’esperienza maturata negli anni con Voce all’opera».

Una questione, quella economica, che secondo Fabio Ceresa, cremonese, classe 1981, blocca i teatri italiani. «La responsabilità che comporta la gestione di un budget rende difficile ottenere incarichi di pre- all’inizio delle carriera. Sovrintendenti e direttori artistici non rischiano». Anche all’estero «i teatri sono toccati dalla crisi: la risposta non sono i tagli, ma i progetti nei quali ai registi viene lasciata grande libertà e insieme chiesto di essere artisti a tutto tondo», spiega Berloffa che dopo anni come assistente di Luca Ronconi nel 2007 ha vinto un concorso del ministero della Cultura francese per la regia de Il viaggio a Reims di Rossini, «una coproduzione tra diciotto teatri e con due anni di tournée. Cosa impensabile in Italia». E se lavorare all’estero per Grazzini «insegna anche ad apprezzare delle cose dell’Italia e a comprendere quali potrebbero essere migliorate », per Ceresa, che lo scorso anno ha vinto il premio come “Best young director” agli International opera award di Londra, «è una ribalta fondamentale e necessaria, non solo per la nota esterofilia tutta italiana, ma soprattutto perché permette di confrontarsi con metodologie sorprendentemente nuove di gestire un palcoscenico». Tanto più, interviene ancora Grazzini, che «l’Italia non fa molto per sostenere i nuovi talenti». Certo, ricorda Ceresa, ci sono realtà «coraggiose come l’AsLiCo, Macerata e il Festival della Valle d’Itria che hanno fatto della rivelazione di giovani talenti un personale tratto distintivo».

Ma secondo Grazzini «le scuole sono poche e a numero limitatissimo e rispetto alla regia in particolare non insegnano poi molto. Rispetto a Paesi come la Germania non si può parlare di una vera e propria scuola di regia». Non basta, però, «essere italiani per saper fare bene l’opera», riflette il regista toscano. «Occorre porsi delle domande sulla forza di comunicazione che può ancora avere questo lignaggio», dice Cherstich che per Roma si è inventato l’OperaCamion, un tir che arriva in una piazza e diventa palcoscenico per un melodramma: lo scorso anno è toccato al Barbiere di Siviglia di Rossini, quest’anno si pensa a Mozart. «Per me il regista è un artista che collabora con altri artisti, quindi lo spettacolo è un’opera d’arte totale: per quel che mi riguarda faccio dialogare musica e arte contemporanea per rendere moderna non una storia in musica, ma un linguaggio come quello della lirica ». Che non significa, secondo Aliverta, «cavalcare l’idea che i registi debbano per forza fare scandalo, ma portare nel modo più immediato la nostra cultura a più gente possibile». Ecco i flash mob che Voce all’opera ha fatto in metropolitana, nei supermercati e al ristorante «per iniettare l’opera nella società», racconta il regista che, pur avendo progetti in Giappone e Polonia, è convinto che «si possa costruire una carriera in patria. Sono contro quelli che piangono e scappano.

Certo, forse qualcuno ci ha provato e non c’è riuscito. Ma non è vero che in Italia non si va avanti se non si è raccomandati. Non penso si debba delegare tutto allo Stato: come si può pensare che chi ha fallito su molti fronti, compreso quello del sostegno alla musica, ti dia una possibilità proprio in questo campo? Non occorre aspettare tempi migliori, occorre crearsi occasioni». Per evitare che la lirica diventi solo uno spettacolo per pochi Cherstich suggerisce di «uscire dal museo per rompere le convenzioni di un linguaggio che potrebbe apparire vecchio». Mentre per Aliverta «occorre fare sì che chi ascolta Gabbani possa ascoltare anche l’opera e accorgersi che non è vero che se una cosa piaceva ai nostri nonni è per forza vecchia».

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