venerdì 28 novembre 2008
Il ct diventa scrittore: «La squadra più forte è la famiglia. Io cerco di riprodurla nella mia Nazionale».
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Massimo Cacciari e Giulio Giorello dovrebbero cominciare ad allarmarsi perché nell'agone della filosofia ha appena fatto il suo debutto trionfante il ct azzurro Marcello Lippi. Dopo un Mondiale vinto, la fuga e poi il ritorno alla guida della Nazionale, Lippi ha deciso che questo è il tempo di far conoscere quella che chiama la sua «filosofia di lavoro» nell'iperuranicoIl gioco delle idee che segna il debutto del ct come scrittore. Un pensiero denso per niente "debole" come quello dell'ormai collega torinese, il filosofo Gianni Vattimo, in cui Lippi come un Georges Bataille prestato al calcio traccia il suo concetto di «comunità» e una teoretica di tutto rispetto. Del resto due anni fa, mentre i tedeschi di Jurgen Klinsmann alla vigilia della semifinale mondiale di Dortmund oliavano i muscoli sperando di battere finalmente il "nemico" italiano, nel ritiro azzurro il filosofo Marcello toglieva di mezzo il pallone e come Spinoza potenziava la mente dei suoi ragazzi indottrinandoli sull'idea di «morte». Visti gli esiti (vittoria sulla Germania e poi il titolo in finale con la Francia) forse quella lezione è stata tutt'altro che mortale. Nel suo concetto di "squadra-comunità" in cui l'individuo si realizza a vantaggio del gruppo e l'elemento egoistico viene annullato, c'è una matrice cristiana. Qual è il suo rapporto con la fede? «Sono un laico con i piedi ben saldi per terra e un occhio sempre rivolto al mare. Quando ho parlato della morte ai miei ragazzi è stata la prima volta che affrontavo un argomento del genere e l'ho fatto tenendo presente quel tipo di lutto che nella squadra più importante, la famiglia, provoca un grande dolore, ma se quel nucleo è unito la reazione sarà fortissima e talmente coraggiosa da non temere nulla. Hanno recepito il messaggio e infatti nessun ostacolo ci ha più fermato in Germania». Qual è l'avversario peggiore di una squadra di calcio e che si riflette anche al di fuori, nella società? «Quello di sentirsi dei leader che pensano di poter fare tutto da soli, di spacciarsi agli occhi della loro comunità per dei fenomeni intoccabili e in questo modo non fanno che arrecare danno alla società di cui dovrebbero essere parte positivamente integrante». È molto interessante la dicotomia campione-fuoriclasse che lei fa, avvalendosi della citazione di Carmelo Bene: "il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può". «Nell'immaginario comune il fuoriclasse nel calcio è colui che fa cose fuori dalla norma, solo perché gli riesce la giocata ad effetto o il colpo di tacco. Io invece penso che il fuoriclasse per eccellenza è colui che si dimostra straordinario non solo in campo, ma anche nella vita di tutti i giorni e nel confronto sociale». Lei nel libro cita come appartenenti a questa categoria rara: Platini, Van Basten e Maradona, ma chi sono i fuoriclasse italiani? «I fuoriclasse della mia generazione sicuramente sono stati Rivera, Riva e Mazzola. Quelli che ho allenato io, senza far torto a nessuno, come ho scritto nel libro: Peruzzi, Ferrara e Cannavaro. Ma potrei fare altri nomi che sono nella direzione di questi grandi uomini, prima che grandi calciatori». Cito sempre dal suo libro: nel nostro campionato ci sono "troppi stranieri". Come ci si difende dall'esterofilia? «È vero che da noi ci sono tanti stranieri, ma giorni fa parlando con Capello mi ha detto che lui per la sua nazionale ha una scelta limitata al 38% di inglesi presenti nella Premier. Io posso considerarmi fortunato visto che gli italiani in serie A rappresentano ancora il 60%». Qual è il maggior cambiamento che c'è stato nella nostra Nazionale? «Una volta c'erano i grandi blocchi, Juve, Milan o Inter, adesso c'è una frammentazione della rosa azzurra con molti giocatori bravi che arrivano dalle squadre di provincia. Un cambiamento questo che io considero un valore aggiunto per il nostro movimento». In due punti del suo libro si sottolinea l'esasperazione del giornalismo sportivo italiano «che dà una immagine distorta e ingenerosa dei calciatori». Allora ha ragione Mourinho? «Io lavoro molto sui miei limiti per cercare di migliorarmi continuamente e quello di una certa superficialità di giudizio nei confronti dei calciatori la considero un grave limite del nostro giornalismo sportivo. Anche perché se si andasse in profondità si vedrebbe che i calciatori di oggi sono molto più intelligenti e impegnati socialmente di quanto si voglia far credere alla gente. Io e Mourinho abbiamo molte cose in comune...». Qual è stata la molla più forte che l'ha spinta a tornare alla guida dell'Italia? «Se fosse stato per me, non avrei mai lasciato la Nazionale. Ma c'è stato un momento dopo lo scoppio di Calciopoli in cui tutto quello che dicevo veniva strumentalizzato contro di me e la mia famiglia. Quindi anche se a malincuore ho capito che dovevo farmi da parte. Quando sono stato richiamato non ho potuto dire di no e la mia è stata una scelta passionale». A che punto è quel processo di identificazione tra la sua squadra e il nostro Paese? «Penso che lo stesso amore e l'orgoglio di chi risponde alla mia convocazione poi si veda anche in campo e con il tempo e la vittoria del Mondiale siamo riusciti a trasmetterla anche a quella parte d'Italia non calciofila». Ha appena superato il record di Vittorio Pozzo (31 risultati utili consecutivi) che era uno che ci sapeva fare anche con la scrittura. Che fa vuole emularlo in tutto? «Sì, ma magari vincendo un secondo Mondiale, come lui... Confesso comunque che amo la scrittura e che nel periodo in cui non allenavo ho scritto molto e questo che Cristina Poma considera un "trattato filosofico" ne è la riprova». Un libro che lei vorrebbe finisse tra le mani dei giovani. In questo tempo di crisi profonda che messaggio ha per le nuove generazioni? «Il precariato in cui vivono è in parte anche colpa di noi adulti che probabilmente non siamo stati dei buoni esempi. Ho avuto la fortuna di tenere conferenze in 24 università e ho respirato un'aria di grande voglia di fare e di essere protagonisti del domani da parte dei giovani. Sono tempi duri, ma io dico loro di avere fiducia, di impegnarsi e di fare squadra. Perché uniti si è sicuramente più forti».
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