domenica 19 luglio 2020
Si completa con “Le Nemee” la quasi trentennale edizione critica delle opere del poeta che sa che parlare degli uomini è parlare degli dèi: di ciò che è divino e perenne
Il busto di Pindaro conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Il busto di Pindaro conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli - WikiCommons

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«Una è la stirpe degli uomini e degli dèi: da una sola madre / è il respiro a entrambi. Ma potenza in tutto diversa ci / separa, ché niente noi siamo, / mentre il cielo di bronzo è per essi eterna / incrollabile sede. In qualcosa però somigliamo, / nel gran senno o l’aspetto, a immortali... ». Come tutti i poeti antichi dopo Esiodo, Pindaro sa che parlare degli uomini è parlare degli dèi: di ciò che è divino e perenne. È il fondamento della civiltà greca, con cui inizia il sesto canto per la vittoria dei Giochi Nemei, dedicato ad Algimida di Egina, che vince nella lotta dei ragazzi. La Fondazione Valla Mondadori pubblica Le Nemee, nell’eccellente cura di Maria Rosa Cannatà Fera (pagine LXXIX602, euro 47,50), quarto volume dopo Le Istmiche, curate da Aurelio Privitera nel 1992, Le Pitiche e Le Olimpiche, curate da Bruno Gentili nel 1995 e 2013).

I versi divennero famosi e discussi, Leopardi ne fu incantato: un solo grado separava uomini e dèi, e l’eros poteva congiungerli. Come in Saffo, vi si vedeva la fede nella sopravvivenza dell’anima, propria dei pitagorici. E in realtà Pindaro – l’unico poeta che i Greci ritennero pari a Omero – compie un balzo insuperato, nella fede ossessiva per la memoria e la celebrazione di coloro che aspirano al divino trascinando con sé le loro comunità. Solo Platone, una generazione dopo, balzerà verso l’essere, il bene, il bello, nello slancio della mente invasa dalla luce. Pindaro (518-438) nasce vicino a Tebe dalla stirpe degli Egidi in un tempo di contraddizioni, che egli riflette. Aristocratico, è naturalmente anti-tirannico, ma non anti-persiano, e risponde, scrive Cannatà, a «sviluppi contemporanei ». Dall’economia premonetaria all’uso della moneta, le città sperimentano la democrazia, ma non ancora le tirannidi e le lotte fra loro; confederate nelle anfizionie dei santuari – che hanno fini religiosi, civili, militari, economici, e scandiscono i giochi atletici quali riti catartici – si impongono in tutto il Mediterraneo: nel 480 respingono i Persiani a Salamina, e Ierone di Siracusa batte i Cartaginesi. La civiltà patriarcale si è imposta sulle istituzioni matrilineari: la religione apollinea, con la sua luce senza ombre, la sua forma frontale, unica e distinta, sui culti della Dea dai molti volti; sui riti misterici, dionisiaci, ermetici discesi dal simbolismo multiforme della Signora degli animali. Pindaro è il poeta apollineo per eccellenza; ma ciò non toglie, o forse è proprio per questo, che sia anche un devoto della Dea, di cui Apollo ha assorbito ogni antitesi di luce e tenebra, insieme ai colori variegati e agli incanti del fratello Ermes. Lo testimoniano le varie invocazioni alla Musa: Madre nutriente, Memoria o principio dell’acqua di vita che scorre nell’Oceano e alimenta l’universo: quasi un plasma liquidissimo e fecondo. Mentre la natura madre come la terra fertile dà frutti alterni, la Madre Musa irrora la poesia dal profondo, istillandole la sua potenza.

Così la poesia non è che un’acqua “superiore”: il canto, come sorgente della vita, diventa l’ottima «bevanda canora», si trasforma in «miele mischiato con candido latte», avvolto in una «spumeggiante rugiada». Se l’arte plastica contiene nelle dure, immobili superfici le tensioni di una vita interna che la forma delimita, ma irraggia dal centro come l’aureola visibile della bellezza (scriveva Carlo Diano), la poesia scorre e vola tra cielo, terra e mare, aerea e liquida, perché «oro / salda la Musa e candido avorio / e fiore di giglio, sottratto a rugiada marina». Per tutti la bellezza è raggiunta miracolosamente, in quell’attimo che Platone chiama exaíphnes, e Pindaro kairós, il «momento opportuno» («in pari misura tiene la cima di ogni cosa il momento opportuno», Pitica IX; «in ogni cosa c’è una misura: conoscere l’attimo giusto è la cosa suprema», Olimpica XIII). La poesia cerca il supremo, il sublime: «Ottima è l’acqua e l’oro / come fuoco che avvampa / rifulge nella notte / più di ogni superba ricchezza. / Se brami, mio cuore, / cantare gli agoni, / non cercare nel giorno / altro fulgido astro / più ardente del sole / nell’etere deserto» ( Olimpica I). Ma seguendo gli astri, addita regole, numeri, limiti, leggi, forme, tradizioni purificate, riti consacrati: «Non ambire, mio cuore, a una vita immortale, / ma esaurisci le vie del possibile» ( Pitica III), perché «sogno d’un’ombra l’uomo. / Ma quando un bagliore discende dal dio / fulgida luce risplende sugli uomini / e dolce è la vita». ( Pitica VIII).

La relazione con Sparta e Tebe consegna a Pindaro le genealogie mitiche più grandiose: quelle di Zeus e Nemesi; di Elena con Castore e Polluce, i suoi fratelli Dioscuri; quelle di Cadmo e Armonia, congiunte nell’epos dei poemi di Omero e nella tragedia, proprio allora messa in scena da Eschilo su episodi di interesse comune. Ma poiché il mito racconta storie differenti nella stessa unità di famiglie, con le potenze divine che si manifestano nel suolo, negli animali, negli alberi, nelle rocce, nei fiumi, nell’Oceano e nel Tartaro, tutte originate da una mixis misteriosa, da genealogie remote, ecco le odi per le Nemee – che dal VI secolo si svolgevano tra Argo e Corinto in una valle boscosa – mettere a fuoco l’unione di Peleo e Teti, il loro figlio Achille, che colpisce Memnone figlio di Aurora e contende con Aiace; Odisseo; Ercole neonato che strozza i serpenti sconvolgendo i genitori; la scelta di Polluce, che rinuncia a parte dell’immortalità per condividerla, insieme alla morte, con il fratello Castore. I voli di Pindaro sono una vertiginosa irradiazione di frecce di luce che mirano infallibili da un qui a un là, per colpire i centri dei bersagli: i luoghi metafisici e fisici, che intessono il paesaggio unico della Grecia vittoriosa nel mito e nella storia. Un recentissimo libro unisce tutte le scienze più adatte per dimostrarlo (Richard Neer, Leslie Kurke, Pindar, Song and Space: Towards a Lyric Archaeology, John Hopkins University Press). La mirabile composizione dello spazio e del tempo creata da Pindaro, è stata sempre uno dei principali obiettivi della poesia: tracciare una geografia fisica e spirituale, disegnare il temenos – lo spazio sacro e le sue direzioni – per la memoria della propria civiltà. Ci vuole connessione con le stelle, sguardo d’aquila, precisione, niente di meno di quella degli strali e della cetra di Apollo, che creano un’armonia invincibile.

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