domenica 18 febbraio 2018
Poliedrico artista e memoria storica, il grande banjoista svela: «Il vero jazz è finito negli anni 60 ed è tutto nei miei 45mila dischi. Per colpa del mio idolo Bix ho lasciato Milano»
Lino Patruno con il suo banjo (foto di Alberto Cattaneo)

Lino Patruno con il suo banjo (foto di Alberto Cattaneo)

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Cabarettista con i Gufi, attore, sceneggiatore, regista televisivo, ma soprattutto custode, anzi «sacerdote» come si autodefinisce, del jazz. Da jazzista, naturalmente. Detentore di ben 45mila dischi, Lino Patruno, è il più famoso banjoista italiano. Vinili e cd che racchiudono l’epopea di quel jazz storicamente nato cent’anni fa (compiuti il 26 febbraio dello scorso anno) quando Avvenire cominciò il suo speciale viaggio in questo “nuovo mondo” sonoro che ha marchiato a fuoco il Novecento, intervistando alcuni dei più grandi protagonisti (vecchi e nuovi) del panorama jazzistico ita- liano e internazionale. E tra le migliaia di pezzi unici e rarità della discoteca di casa Patruno non può certo mancare l’originale della prima incisione jazz della storia, Livery Stable Blues della Dixieland Jass Band capitanata da Nick La Rocca, a imprimere a questa nuova musica il fondamentale e originario Dna italiano.

Ma com’è nata la sua passione per il jazz?

«All’inizio le canzoni che ascoltavo erano quelle italiane di Barzizza, Angelini, Rabagliati, Natalino Otto, tutti musicisti e cantanti che avevano una forte impronta swing. E poi in quegli anni, finita la guerra e soprattutto nei primi anni Cinquanta, tra i ragazzi c’era la moda del jazz e per darsi un tono si mettevano sul giradischi i 33 giri che venivano dalla Francia. Il jazz del resto era un po’ la colonna sonora dell’esistenzialismo. Bei tempi, che non mi fanno certo invidiare i ragazzi di oggi e il loro povero rap».

E il Patruno musicista e jazzista?

«Ho preso in mano la prima volta la chitarra a 18 anni, nel 1953. Prima di andare al mare a Senigallia avevo imparato i primi accordi con l’intento di suonare in spiaggia e attirare l’attenzione di qualche bella ragazza. Quei tre accordi imparati diventarono presto decine. Avevo scoperto la vocazione per la musica e anziché andare in spiaggia me ne stavo chiuso in casa a imparare la chitarra. Sono stato un autodidatta. E dopo l’estate, a ottobre, suonavo già nella mia prima orchestra a Milano».

Da lì decine e decine di grandi collaborazioni, concerti e incisioni...

«Sì, tra cui quella con il figlio di Nick La Rocca, Jimmy, anche lui cornettista, ancor più bravo del padre, che però è entrato nella storia. Deve sapere che il padre di Nick La Rocca aveva suonato a sua volta la cornetta nella fanfara dei bersaglieri del generale Lamarmora durante la terza guerra d’indipendenza. Poi tornò al suo paese, Salaparuta, in Sicilia, dove prese atto della miseria che si era generata dopo la fine del Regno delle Due Sicilie e nel 1872 partì “all’America”, come si diceva. Come tutti con l’idea di tornare, ma non tornò più».

In compenso, grazie al figlio Nick, contribuì a far nascere il jazz.

«Come molti altri italiani, soprattutto siciliani. La maggior parte dei musicisti bianchi pionieri del jazz erano infatti nostri connazionali che hanno portato la tradizione strumentale delle bande unendola al blues e al gospel dei neri che al jazz hanno dato l’apporto ritmico con tamburi e percussioni varie. Centro nevralgico di tutto questo fermento musicale è stata New Orleans, perché il viaggio in nave da Palermo costava meno di quello per New York. Ma anche il primo pianista bianco della storia del jazz è stato un italiano, Jimmy Durante».

Eppure oggi i nostri jazzisti fanno fatica a essere profeti in patria...

«È una vocazione italiana, siamo i peggiori sponsor di noi stessi. I nostri jazzisti sono molto apprezzati all’estero, sono considerati tra i migliori. Invece qui da noi si preferisce promuovere e spingere il Festival di Sanremo. Per questo mi considero con orgoglio un “sacerdote” del jazz, un custode della tradizione. Del resto quello che si suona oggi e che viene chiamato jazz, con il vero jazz ha poco a che fare. Secondo il mio modesto avviso la parabola del jazz si è conclusa negli anni 60 e 70 quando è stato contaminato dal rock, dal funky e dalla fusion. Quello che si chiamava free jazz altro non era che la fine del jazz. Si dice che stia tornando lo swing, ma è soltanto una moda, un modo per poter ballare. Uno di quegli effimeri e ciclici ritorni di fiamma. Come è finita da un bel po’ la musica classica, così è finito anche il jazz».

Tra tutti i grandi, chi ha amato di più?

«Difficile elencarli, decine di musicisti hanno impresso il proprio marchio su questo genere e sulla musica in generale. Certo, io ho amato molto Bix Beiderbecke, Louis Armstrong, Jelly Roll Morton (il primo grande pianista della storia del jazz, inventore del ragtime), Benny Goodman, Joe Venuti, con cui ho anche avuto la fortuna di suonare».

A proposito di Beiderbecke, lei è stato anche autore del film biografico di Pupi Avati.

«Sì, una bellissima esperienza. Scrissi la sceneggiatura e a quell’episodio devo anche il mio trasferimento da Milano a Roma, di cui in quei primi anni 90 subii il fascino. Oggi un po’ meno. Poi andai anche negli Stati Uniti con Pupi a seguire le riprese del film Bix. E quella volta me ne tornai anche con un sacco di dischi in più».

Ma tra i suoi dischi non ci sarà solo jazz...

«C’è di tutto tra i miei 45mila pezzi, di sicuro niente di sanremese. Dischi reperiti in mezzo mondo tra collezionisti, bancarelle, negozi. Tra le chicche ho alcuni rarissimi 78 giri di jazz che stavano a casa del Duce e che ho avuto in regalo dalla vedova di Romano Mussolini. Lui, suo fratello Vittorio e la sorella Edda li ascoltavano di nascosto da papà Benito quando erano a Villa Torlonia. Poi quando morì Romano, dodici anni fa, mi telefonò la moglie e io andai a ritirare tutte quelle meraviglie. Eravamo amici e con Romano ho suonato per quarant’anni. Era un bravissimo pianista anche se non conosceva la musica. Anche lui era un autodidatta, come me. Perché il jazz segue altri percorsi. E suonare è ancora il mio alchemico elisir».

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