mercoledì 23 dicembre 2020
A 92 anni il poeta, autore e attore di teatro, insignito del premio Raffaello, ricorda i suoi due gemelli morti poco dopo la nascita
Carlo Pagnini

Carlo Pagnini - .

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Ci sono uomini che hanno cultura. La indossano come si può indossare un Armani o un Rolex. Una cultura che brilla come una stella lontana, ma non scalda, non tocca il cuore. E poi ci sono uomini, sempre più rari, che sono cultura. Te la offrono con generosità, come un buon pane dorato e fragrante. Per questi ultimi la cultura è qualcosa che nasce da dentro. Cresce con gli studi, gli incontri, le ricerche, ma c’era già prima, c’era da sempre, quasi un patrimonio genetico. La cultura è dono inatteso, che sei chiamato a custodire. Invoca parole, colori, suoni.

Un orizzonte da svelare e abbracciare. Carlo Pagnini la cultura la declina con il verbo essere: novantadue primavere, poeta dialettale, autore e attore di teatro, presenza viva sui social. Al dialetto pesarese ha dato dignità di lingua, ne ha scoperto le radici, ha studiato e riportato alla luce i personaggi che più l’hanno amato e coltivato. L’ho conosciuto grazie al conte Alessandro Ferruccio Marcucci Pinoli, poeta, artista e ideatore del premio Raffaello.

Dal 2008, nel suo Alexander Museum Palace Hotel di Pesaro, premia personalità del mondo delle arti: da Pupi Avati a Tonino Guerra, da Achille Bonito Oliva a Valerio Manfredi, a Sergio Zavoli… Nella XIII edizione, il 12 dicembre scorso, il Premio Raffaello è per Pagnini, cantore delle Marche. «Sono sorpreso – dice il poeta –. Tutto è nato nella spontaneità e di una cosa son certo: nella mia vita è più quello che ho ricevuto di quello che sono riuscito a dare». Ma Pagnini ha dato tutto fin da bambino. Ultimo di sette fratelli, nasce il 14 luglio 1928 a Pantano, piccolo borgo del Pesarese all’incrocio di due fiumiciattoli, il Genica e il Vallato, che quando straripavano rendevano il paese e le terre intorno un regno di fango. E la miseria portava a migrare in terre lontane: la madre Adelina quattordicenne a raccogliere cotone nei campi vicino a Chicago, il padre Adelelmo nella miniera di Marcinelle e poi in una fabbrica di tabacchi in Svizzera. «Il dialetto è lingua madre ed è per me ancora più vero – racconta Carlo – perché il padre l’ho perso a cinque anni. È la prima lingua che ho sentito da mia mamma, che ho imparato e parlato. La considero un dono meraviglioso e la custodisco gelosamente. Non mi sono mai arreso alla distruzione del dialetto. A scuola si doveva imparare l’italiano e mi dicevano di dimenticare il dialetto. Io volevo imparare, ma senza rinunciare alle mie radici. E così mi ritrovavo a fare la traduzione in simultanea dal dialetto all’italiano, che aveva tutt’altra costruzione e un impianto diverso. La metrica, la musicalità, i ritmi e le intonazioni le ho dentro di me da sempre, sono nate con me.

Abbiamo sbagliato a ritenere il dialetto la lingua di un dio minore». Per lui il pesarese abbraccia tutto, esprime tutto, è forse il suo amore più grande insieme alla sua famiglia e ai cinque figli. Carlo Pagnini, come spesso accade per chi riesce a sondare le profondità dell’umana esistenza, si è formato nel dolore, ma non si è mai arreso, neanche quando gli sono morti due gemelli poco dopo la nascita: «Erano belli, tre chili ciascuno. Lo strazio per la perdita lo vivo tutti i giorni, eppure la gioia di averli tenuti tra le braccia è ancora più grande». E la gioia traspare dal suo volto di antico fanciullo. «Da piccolo la mia più grande gioia era riuscire a strappare un sorriso a mia madre». Vedova a quarantadue anni, due figli morti, altri cinque da mantenere con il mestiere di materassaia.

Lei e sua cognata giravano di casa in casa con un carretto. «Io aiutavo a ripulire e ravvivare la lana, tra polvere e parassiti. Poi quando si rientrava al casolare mi caricavano sul carretto e mi sentivo un principe in carrozza, mi sbracciavo per salutare tutti ed ero felice ». Ricordi di quasi un secolo sono più vivi della giornata di ieri. «Ho iniziato a cantare in un coro e recitare in teatro nel 1933, a cinque anni: la parrocchia per me è stata vera scuola di vita, bellissima e gratis per chiunque, e di questo e della mia fede sono grato ai francescani e alle suore». La prima a scoprire il suo talento di scrittore è Ada Tomassoli, sua insegnante delle elementari. «Scrissi un tema su un pavone, che si era tutto gonfiato e aveva mostrato la sua splendida ruota: era la cosa più bella mai vista. La maestra mi chiese dove l’avessi copiato. I compagni mi difesero: il pavone era nel giardino di Valentina. Da allora volle che leggessi tutte le mie composizioni in classe».

A undici anni inizia a lavorare come garzone da suo fratello barbiere, ma l’amore per i libri non lo abbandona: li acquistava dallo stracciaio. Un rosario di lavori alle spalle: sarto, tipografo, idraulico, ispettore agrario, bancario. Passano gli anni, passano i mestieri, ma non passa il suo desiderio di imparare e soprattutto cresce la passione di scrivere, recitare e cantare in dialetto. Riporta in vita un poeta di strada, Pasqualon, così la gente chiamava Odoardo Giansanti (1852–1932), nato e morto a Pesaro. Anche lui orfano, ma di madre. «Ho conosciuto Pasqualon, faceva paura. Veniva da mio padre, che allora era infermiere in ospedale, per farsi curare. Aveva un gran vocione tonante e io lo vedevo come un gigante. In autunno faceva una mattana per andare nella “residenza d’inverno”, il manicomio.

E poi a primavera tornava alla sua vita in strada. Declamava i suoi versi in piazza e ora offro io la mia voce per far rivivere quel vernacolo che definiva “mezz frances”». Insieme con altri amici gli dedica un monumento. Carlo è l’erede di Pasqualon. In pensione da trentatrè anni si dedica anima e corpo a poesia, canto e teatro. Nel 2016, l’incontro tra i suoi versi e la grande musica, grazie al maestro Fabio Masini: “Sa un fil de luc” diventa un’opera per orchestra e coro da cinquanta elementi, rappresentata nel 2016 al Teatro Rossini di Pesaro. Della sua infanzia resta immacolato l’amore per il Natale e l’attesa del Bambinello. «Non sono un nostalgico, ma una cosa di questi nostri tempi proprio non capisco. Perché il Natale, la festa più bella, è sempre più la festa senza il Festeggiato?».

Raffaellino del Colle, “Adorazione dei pastori” (1528-1529) Pesaro, Musei Civici, collezione Vittoria Mosca

Raffaellino del Colle, “Adorazione dei pastori” (1528-1529) Pesaro, Musei Civici, collezione Vittoria Mosca - .

I versi / La nascita, la morte, il dolore


A nasc e a mor

Davanti a mè, tel spèch’, la mi’ figura muta la me fisèva mus a mus e mè a la contemplèva un po’ confus tel vedla acsé severa, acsé sigura.

È stèd un chiod ch’ el s’è spicèd dal mur ch’i la i à fata arducia tutt cuncén e sparpajèdi com’è tant fiulén che spaventèd i brancola tel scur.

Mo el giorne el nasc anca se un antre el mor senza l’aiut dla stima o del disprezz davanti a l’impotenza del stupor.

Forse par quest da quant a t’ò incuntrèda gioia e torment m’arduc l’anima a pezz e a nasc e a mor cent volt t’una giurnèda. Carlo Pagnini


Nasco e muoio
Di fronte, nello specchio, la mia immagine / fissava me, muta, viso a viso / e io la contemplavo un po’ confuso / vedendola così severa, e sicura / Un chiodo si è staccato dal muro / e l’ha ridotta in tanti pezzetti / sparpagliati come tanti bambini / che spaventati brancolano nel buio. / Ma il giorno nasce anche se un altro muore / senza soccorso di disprezzo, o stima, / nell’impotenza dello stupore. / Forse per questo, da quando ti ho incontrata / gioia e tormento mi fan l’anima a pezzi / e nasco e muoio cento volte al giorno.

Dó perle peschèd e pers

Un pescador de perle el s’è tufèd, tra tant pericol, in tel mèr apert.

Quant l’e arvnud só, seben ch’ann’era espert, t’un’ostriga dó perle l’à truvèd.

Colme d’ felicità i le guardèva mentre sa un’onda el mèr i le archiapèva. I le à vést a gì gió fin in tel fond senza pudéj fè gnent. E’ stèd un lamp. T’un atim l’è pasèd dal ris al piant.

Paréva i fóss caschèd adoss el mond. Che dolor ch’ l’avrà avud!

An poss pensèi. Ma mè m’è capitèd sa dó gemei.

Carlo Pagnini

Due perle pescate e perse
Un pescatore di perle si tuffò, / fra tanti pericoli, in mare aperto. / Riemerso scoprì che pur inesperto / aveva pescato due perle, in un’ostrica. / Le guardava, felice, / e un’onda del mare se le riprese. / Le vide scendere, giù, sempre più giù, / senza poter far niente: un lampo. / In un istante passò dal riso al pianto, / il mondo gli era caduto addosso. / Immagino che dolore, ma non posso pensarci. / A me è capitato con due figli, gemelli.

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