venerdì 5 novembre 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Antonio Ligabue non è certo nuovo alle attenzioni della critica. Dalla nebulosità di un’aura forse un po’ romantica è emerso il «genio popolare» del «poeta contadino», ovvero, «l’arte difficile di un’artista senza regola». Ma lo sguardo odierno, non più inquinato dai grumi di equivoci, illazioni e incomprensioni, fino al leggendario «fenomeno folkloristico», scorge in Ligabue una sua «ragione dell’arte» che gli restituisce la dignità dei maggiori esponenti del Novecento. È lo sguardo della maturità critica che molto deve al processo di bonifica avviato con Tutto Ligabue. Catalogo ragionato dei dipinti (ben 868) curato ed edito nel 2005 da Augusto Agosta Tota, presidente del Centro Studi & Archivio Antonio Ligabue di Parma e firmatario della mostra – presentata da Pascal Bonafoux, Marzio Dell’Acqua e Vittorio Sgarbi – aperta alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze fino al 16 gennaio, dal titolo «Ruggito. Antonio Ligabue: la lotta per la vita». Dopo una vita spesa come «ambasciatore» del singolare artista, Tota trova qui l’occasione giusta per svelarne l’essenza: «Se una sola parola potesse racchiudere il mondo fantastico e immaginativo di Antonio Ligabue quella sarebbe "ruggito"». Il ruggito che una fiera, tra le molte scolpite o dipinte dall’artista con alito espressionista, libera all’unisono con lui, fronteggiandolo sul fremente e vibrante nervo scoperto di umori spaventati nella lotta per la vita. Manifesto di umori affini che si accordano sulla condivisione piuttosto che sull’antagonismo, mandando in onda la fiction dell’umana bestialità trasmessa dai suoi autoritratti, intimamente legati alla selvaggia natura di tigri, leoni, leopardi, gatti selvatici o lupi, belve feroci solidali con lui nella priorità assoluta di «schivare gli umani per salvarsi», con l’unica arma disponibile per dotazione naturale: l’istinto primario liberato in tutta la sua impellente urgenza. Un unico accorato «ruggito» che prolunga di tela in tela il suo grido arcaico, carico di tutta l’energia derivata da quegli impeti, impulsi primordiali rivolti contro l’asprezza del mondo di cui si fanno altisonanti portavoce. Per questo le ottanta opere di questa esposizione fiorentina privilegiano il protagonismo di un bestiario catturato nell’attimo fatale che mantiene in sospensione l’esistenza durante cruciali fasi dell’aggressione nella lotta. Un bestiario di cui fa parte integrante la teoria di Autoritratti, esplosiva in tutta la prorompente portata di intensità ed energia espressivo-cromatica: metafora speculare di un dolore psicofisico di cui l’artista non fa mistero, esternandolo anzi, all’ennesima potenza, per la sua fede nel potere esorcizzante della pittura stessa. Una pittura misuratamente vangoghiano-fauvista e più propriamente grondante di quella turbolenza intima e personalissima con cui Ligabue si insinua nelle scene più cruente delle estenuanti lotte per la sopravvivenza di belve feroci o magari di galli impettiti d’orgoglio al climax dello scontro. Ma il suo bestiario è al completo solo con a bordo lui stesso, quell’essere che i filmati di Raffaele Andreassi e Pier Paolo Ruggerini ci restituiscono quale «strano animale selvatico» vagante tra le golene e le rive del Po della bassa padana e i meandri della giungla più esotica, coperto di stracci, martoriato nel fisico e nella mente, con il naso reso aquilino dall’«automutilazione sacrificale», urlante da sotto il cappellaccio tutta la pregnante asprezza di quel micidiale cocktail di impeti primigeni di odio, paura, amore e rabbia. È il «primitivismo» dell’«uomo arcaico» che Ligabue vive visceralmente con il proprio essere «partecipando ad una visione mitica dell’esistenza, immersa con le forze della natura» (Dell’Acqua) prima ancora che questo trasmuti nel tocco di stile «primitivista diretto, brut» (Sgarbi). Un «primitivismo» di marca apotropaica con una sua parabola evolutiva: dalle silhouettes da «dilettante di genio», alle innovative e vivificanti rivisitazioni di antichi stereotipi iconografici, persino di età ellenistica, o di litografie popolari da osteria, fino agli pseudo fotogrammi (corride, traversate, fondali marini) di sconcertante violenza provocanti gli inevitabili turbamenti di un film horror sulle spietate leggi di una natura terribile e implacabile che d’altro canto non esclude affatto l’uomo. Immagini interiorizzate in un modo unico, irripetibile che, con la soprintendente Cristina Acidini, ci figuriamo concepito «nelle sue scorribande campestri, inseguito forse dai ruggiti del suo serraglio immaginario».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: