venerdì 17 febbraio 2023
Alla Fondazione Ligabue un excursus sui "visi mostruosi" lungo la linea settentrionale che collega Lombardia e l'Emilia alla Laguna, con Tiepolo. Ma poi la mostra chiude col pittore inglese. Perché?
Leonardo, “Quattro teste grottesche”, 14951505 (particolare)

Leonardo, “Quattro teste grottesche”, 14951505 (particolare) - / ©The Devonshire Collections, Chatsworth

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Che cosa voglia dire Leonardo quando annota sul Codice Atlantico che “de’ visi mostruosi” non parla ma la ragione sembra a lui subito chiara? «Perché senza fatica si tengono a mente». Sono talmente strane, quelle teste, che non si dimenticano facilmente. Eppure, questa spiegazione non convince. Le “teste caricate” e “grottesche” – da cui deriviamo il termine “caricature” – si connotano per l’eccesso di espressività: sono al di là del “normale”, ma trattengono dell’umano tutto ciò che serve a farne il paragone con lo “scherzo di natura” fisiognomico, il brutto naturale, la deformità che gioca sibillina sul piano del connotato morale (una ipoteca sottoscritta dai greci) e sta tra scherno e comico. Ma ciò che non deve passare sotto traccia è il fatto che il “restare in mente”, o il “venire alla mente”, di quelle teste non è tanto diverso, rimanendo sempre a Leonardo, dal meccanismo, descritto nel Trattato sulla pittura, in base al quale «col solo gettare di una spugna piena di diversi colori in un muro, essa lascia in esso muro una macchia…». E aggiunge: «in tale macchia si vedono varie invenzioni di ciò che l’uomo vuole cercare in quella, cioè teste d’uomini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose». Il primo a essere evocato dunque sono ancora le “teste d’uomini”. Ed è qui che ci si può chiedere che cosa resta dell’uomo nei “visi mostruosi” che, disegnati e dipinti, sono come macchie di segno invertito, nel senso che nelle deformazioni, nelle esasperazioni espressive sembra quasi che l’artista ci inviti a vedere quanto di nebuloso c’è anche nei volti “normali”. Nella nostra interiorità. Si pensa a un Leonardo pre-freudiano. Ma questo – a ben vedere – ci fa anche fare un balzo di vari secoli, fino a noi e a quelle che sono state definite in ambito psichiatrico “parafrenie fantastiche”.

In un certo senso, si deve percorrere questo ponte sospeso per accettare la sfida che Pietro Marani, uno dei maggiori studiosi di Leonardo, lancia al visitatore che entra nelle stanze di Palazzo Loredan a Venezia, in Campo Santo Stefano, per ammirare gli oltre settanta fogli che compongono la mostra voluta dalla Fondazione Giancarlo Ligabue dedicata a “visi mostruosi e caricature” (catalogo Marsilio, fino al 27 aprile), il cui arco aggetta, in modo sorprendente, “da Leonardo a Bacon”. L’addendum novecentesco è dissonante concettualmente rispetto al programma espositivo che intende invece testare la “linea settentrionale” del mostro caricaturale, che dalle “pitture ridicole” della tradizione popolare lombarda, che Arcangeli legava ai valori dell’espressività, culmina nel naturalismo carraccesco; ovvero, prende la strada manierista del grottesco e dei suoi rilievi metaforici e finanche surreali come si sente dire spesso delle “Teste composte” di Arcimboldo, evocato in mostra da due fogli di Anonimo dedicati all’immagine della cucina e dell’agricoltura, e cui si affianca la satirica testa d’uomo in ceramica attribuita al cinquecentesco Francesco Urbini composta di tanti membri virili serrati l’uno all’altro, la cui massima è a tal punto evidente da non dovervi indugiare.

Giambattista Tiepolo, “Caricatura di uomo gobbo”

Giambattista Tiepolo, “Caricatura di uomo gobbo” - / ©Matteo De Fina

In realtà, quando Roland Barthes sosteneva che le teste di Arcimboldo evocano un “malessere sostanziale”, inteso come “brulichio”, ovvero la costipazione formale di teste che dal loro gran disordine di elementi lasciano comunque emergere un volto che ha in sé qualcosa di mostruoso, così Barthes da un lato dichiarava di non “stare allo scherzo” (sofisticatissimo, sia ben chiaro, pur dietro l’apparente brutalità del processo compositivo con elementi allotri rispetto alla forma umana normale), dall’altro centrava il problema implicito dei “visi mostruosi” come espressione di una forma di malessere. La mostra – che presenta, accanto alla Testa di vecchia della collezione Ligabue, attribuita a Leonardo, ben 18 suoi disegni in gran parte mai visti in Italia e provenienti dalla Devonshire collections di Chatsworth in Inghilterra – si avvale di prestigiosi prestiti museali, in particolare la Biblioteca Ambrosiana e la Pinacoteca di Brera, e insegue quella linea settentrionale che attraverso Lomazzo (che nell’Idea del Tempio della pittura stampato a Milano nel 1590 parla appunto dei “visi mostruosi” leonardeschi), Figino, Aurelio Luini, approda a Procaccini, Parmigianino e Annibale Carracci, e ancora alle incursioni fisiognomiche di Della Porta, o al grottesco di Wenceslaus Hollar.

La rassegna arriva così al Settecento veneziano che si coagula attorno alla fama che ebbe l’Album Zanetti, oggi alla Fondazione Cini, con settantasette fogli sui quali sono montate centinaia di caricature eseguite in gran parte nella prima metà del secolo incise dallo stesso Anton Maria Zanetti il Vecchio e dal suo sodale Marco Ricci, sotto le influenze dell’ambiente lombardo e leonardesco (il Vinciano lasciò il segno del suo passaggio a Venezia a cominciare da Giorgione e Dürer). E a questo si aggiunga che nell’inventario della biblioteca dello Zanetti figurava un esemplare dell’Album Mariette, che comprendeva copie delle caricature di Leonardo ed era stato inciso nel 1730 da Caylus. L’arte della caricatura lievita e assume il tono irridente e comico esagerando dettagli come il naso grosso, il mento prominente, l’effetto di scherno co n parrucche abnormi, cappelli singolari oppure, seni debordanti e volti da megere.

Ma quel che colpisce in questo universo umano, quale che sia il ruolo o la funzione sociale del personaggio, è la gobba, che diventa il cuore della presa in giro: prelati, gentiluomini con tanto di bautta o tricorno, seduti, in piedi o di spalle con pompose parrucche, tutti sono accomunati dallo stesso “mostro”: la gobba. Con pochi tratti gli artisti “incidono” i personaggi come se bruciassero la carta dove essi sono rappresentati. È l’impietosa chiarezza di sguardo che guida Giambattista Tiepolo raggiungendo una sintesi espressiva che né Zanetti né Ricci hanno; eppure, proprio Zanetti sembra essere tra loro il più vicino al tempo futuro ottocentesco, quello dove la caricatura giocherà, in Francia per esempio, una efficace azione di critica sociale e politica: basterebbe ricordare i nomi di Grandville, Daumier, Doré per avere un’idea del ruolo “derisorio” del potere che la caricatura assume in quest’epoca sui giornali (senza tradire le sue origini artistiche).

Però siamo lontani nella sostanza dai volti mostruosi di Leonardo e dei suoi discepoli, ma altresì dallo stesso trittico di Studi per il ritrattodi Isabel Rawsthorne. Marani, presentando la mostra ha spiegato che con Bacon, paradossalmente, siamo più vicini a Leonardo che alla caricatura come l’ha intesa la modernità sette e ottocentesca. E ha ragione, ma per il semplice motivo che quelle di Bacon non sono caricature, anche quando sono volti “caricati”, e non sono ritratti eccessivi più di quanto non siano forme visionarie di ciò che c’è oltre il volto umano; si torna alle origini? Solo nella misura in cui anche quelli di Leonardo possano essere anzitutto esercizi formali oltre gli stessi moti dell’anima. Vale a dire, maschere di una idea dell’uomo.

Forse si dovrebbe ragionare attorno alle passioni moderne, dal trattato di Cartesio in poi, per comprendere la categoria stessa di “mostro” e “mostruoso”. Aby Warburg, che visse profondi conflitti interiori e cercò di darsi ragioni storiche e psicologiche di un crollo di una idea di mondo, capì di avere scritte dentro di sé le stesse tracce delle ragioni che cercava. Non a caso, il medievista Sylvain Piron ha dedicato un bellissimo saggio alle cause conflittuali dei misteriosissimi disegni del prete pavese del Trecento Opicino de Canistris, intitolandolo Dialettica del mostro (Adelphi), ovvero facendo propria l’espressione usata da Warburg dopo essere uscito dalla clinica psichiatrica dove si era curato per le sue psicosi insorte dopo la Grande Guerra. Opicino era in lotta contro se stesso, contro le contraddizioni che lo legavano al cristianesimo, così come sei secoli dopo Warburg cercava dentro di sé quella “mostruosità” che talvolta emerge dai disegni degli artisti (un tema molto presente, anche oggi, nei discorsi sull’Art brut). Si tratta, scrive Piron, di essere pazienti con Opicino (e con Warburg) «tentando di capire quello che non riesce a esprimere e che esprime suo malgrado». Era ciò che agitava anche i fantasmi dello storico delle immagini tedesco. Soltanto su questo crinale Bacon, i suoi “studi”, possono ricollegarsi ai “visi mostruosi” sulla linea d’ombra dell’umano, le sue patologie, risalendo fino a Leonardo. Tuttavia il ponte, per reggersi, manca ancora di un’arcata decisiva: scoprire il conflitto interiore di Leonardo sotto le sue teste “caricate”. Un gioco di maschere fra comico e tragico.

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