mercoledì 26 settembre 2012
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Ghislaine Glasson Deschaumes, fondatrice nel 1993 e direttrice della rivista di pensiero critico on line Transeuropéennes (pubblicata in francese, inglese, arabo e turco), dirige un lavoro collettivo sulla realtà degli scambi culturali da una sponda all’altra del Mediterraneo. È ricercatrice all’Istituto di Scienze sociali del politico all’università di Nanterre e coordina il progetto internazionale «Tradurre nel Mediterraneo». Oggi, in occasione della Giornata europea delle Lingue, si terrà a Parigi un dibattito su «La traduzione come specchio: ripensare gli scambi culturali euro-mediterranei».
Lei ha disegnato un panorama delle traduzioni tra arabo, turco, ebraico e lingue europee da 25 anni in qui. Che cosa ha scoperto?
«Tra i Paesi europei, la Francia è il Paese che traduce il maggior numero di libri dall’arabo. Eppure sono solo 60 volumi l’anno, ovvero lo 0,6% di tutti i libri tradotti in francese. In parecchi altri Stati europei, la media è di un libro arabo ogni mille traduzioni. Se si escludono il Corano e le Mille e una Notteo altri due o tre titoli-culto come Palazzo Yacoubian di ’Ala al-Aswani o le opere di Naguib Mahfouz, i libri tradotti dall’arabo hanno una debolissima visibilità sui mass media, nelle librerie e nelle biblioteche. In Israele le traduzioni in arabo sono addirittura infinitesimali e sono un indice dell’assenza di rapporti, nonostante gli arabofoni siano il 25% della popolazione. Anche il turco è molto emarginato: 0,15% di traduzioni in francese, 0,06% in italiano, 0,05 in spagnolo. Quanto all’ebraico, nelle traduzioni europee è proporzionalmente meno maltrattato».
Quali sono le sue deduzioni?
«La traduzione riflette lo stato della circolazione delle idee e delle opere. È il nodo assoluto del dialogo interculturale. Le cifre sopra riportate dicono il poco spazio riservato all’immaginario e al pensiero dell’altro, benché i Paesi rivieraschi del Mediterraneo condividano una storia importante, pesante. Pur con differenze in termini di interesse e di sensibilità nelle nazioni europee, non si può fare a meno di constatare lo scarto bruciante tra le intenzioni e la realtà delle relazioni tra una sponda e l’altra del Mediterraneo».
Relazioni che spesso non ci sono proprio.
In molti Paesi dell’Europa dell’Est o del Nord, o di Paesi arabi, le lingue meno parlate vengono tradotte per tramite di lingue terze, soprattutto inglese e francese. Fino a un terzo delle opere tradotte in arabo passano attraverso il francese. Non esistono autori balcanici tradotti direttamente in arabo o in turco. Non si immaginava un fenomeno di tale ampiezza, dovuto sia al peso delle egemonie culturali sia alla perdita delle conoscenze linguistiche. La tradizione degli studi orientali si sta smarrendo in parecchi Paesi d’Europa. E più si scorre verso Est, meno sono tradotte le letterature arabe. La corrente di traduzioni esistente tra le vecchie "nazioni sorelle" al tempo dell’Urss è affondata col Muro di Berlino e il nuovo disegno delle alleanze geopolitiche».
 
Che cosa si traduce?«Dall’arabo, si traduce letteratura e soprattutto pubblicazioni religiose destinate alle minoranze musulmane, niente o quasi della produzione in scienze umane e sociali (quest’ultima rappresenta solo l’1,85% dello 0,6% di traduzioni arabe in francese!). Il dibattito di idee non viene tradotto. L’Europa disprezza la produzione intellettuale che proviene dal mondo arabo e dalla Turchia: è un’altra delle grandi scoperte del nostro studio. Restiamo prigionieri delle nostre culture colonialiste, del nostro etnocentrismo e del nostro eurocentrismo. L’orientalismo – una costruzione occidentale di quello che è l’Oriente, il mondo arabo e oltre – continua e conserva una semplificazione degli immaginari. L’Europa si è costruita in una logica di centro verso le periferie; noi siamo al centro e ciò che produciamo è centrale, gli altri sono ai margini e quanto producono è marginale. Questo deficit di conoscenza può spiegare in parte che non abbiamo visto crescere le rivoluzioni arabe e che restiamo disarmati di fronte a tali sconvolgimenti: nei 6-18 mesi seguiti a queste rivoluzioni, sono stati pubblicati quasi solo commenti francesi sul mondo arabo, non traduzioni di autori arabi. Lo stesso vale per la Turchia».
Che cosa significa?«Diamo giudizi, ma cosa sappiamo davvero della capacità dei turchi di affrontare il loro passato, di rileggere la questione del genocidio armeno, dal momento che la produzione degli intellettuali turchi non è disponibile in francese? E ancor meno in inglese. Dal lato opposto, per seguire il processo di democratizzazione la Turchia s’è aperta al mondo: in vent’anni, le traduzioni dall’inglese si sono moltiplicate per 6, quelle da francese, italiano, tedesco per 4».
E i legami dal Nord verso il Sud?«Si traduce di più e in modo più diversificato in arabo e le traduzioni stanno aumentando in questi ultimi anni. Ciò è in parte imposto dal processo di arabizzazione in atto dopo le indipendenze. Ma questo non vieta che la scarsità di scambi indichi una grandissima ignoranza di interi settori della realtà europea. E la qualità della traduzione non sempre è garantita».
Che cosa pensa che succederà?
«Come possiamo capire quel che succede in Egitto, in Tunisia, in Marocco, in Turchia, se non conosciamo il dibattito di idee in queste nazioni? Chi sa che il persiano è la terza lingua tradotta in arabo nel settore delle scienze umane? Il mondo arabo si interroga sullo sciismo; noi invece ignoriamo tutto dei dibattiti teologico-politici tra sciiti e sunniti. Dobbiamo rimediare a queste carenze e fare in modo che la traduzione divenga una priorità nelle relazioni euro-mediterranee».
 
(per gentile concessione del quotidiano   «La Croix»; trad. di Roberto Beretta)
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