mercoledì 25 gennaio 2023
Accanto all'economia va ricordata la natura intrinsecamente sacra, poetica e sapienziale di questa bevanda, la sua energia fondativa, i suoi legami cruciali, spirituali con l’Occidente
Vincent van Gogh, "La vigna rossa"

Vincent van Gogh, "La vigna rossa" - WikiCommons

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All’Unione Europea che ha proposto di marchiare il vino con scritte sui danni che può provocare alla salute, molti hanno replicato non solo sottolineando l’importanza sul piano economico del settore vinicolo in Italia, in Francia e in Spagna ma ricordando le grandi ragioni della tradizione alimentare mediterranea e i numerosi studi medici che dimostrano come il vino, assunto in modo giusto, favorisca la salute soprattutto a una certa età. Sembra, però, che pochi abbiano ricordato la natura intrinsecamente sacra, poetica e sapienziale di questa bevanda, la sua energia fondativa, i suoi legami cruciali, spirituali con l’Occidente. Com’è possibile ignorare che il vino non è un intruglio qualunque al pari delle famose (e probabilmente, quelle sì, assai poco salutari) bibite gassate ma una bevanda nobile se usata in modo equilibrato, una realtà enorme sul piano simbolico, un nutrimento a cui hanno attinto profondamente la tradizione grecolatina e quella ebraicocristiana? È forse un caso se Cristo ha definito sé stesso la «vera vite» e se è ricorso al vino per il primo e l’ultimo miracolo della sua vita terrena, la metamorfosi delle nozze di Cana e la transustanziazione dell’Ultima Cena? Questi precedenti abissali risuonano lungo tutta la storia dell’Occidente dedito al culto armonioso del vino anche quando i bevitori non ne sono consapevoli. Se D’Annunzio ha scritto che «il verso è tutto», e che «può inebriare come un vino», a sua volta un buon vino, bevuto con sensibilità e attenzione, può risvegliare nel profondo del nostro essere – cioè della nostra anima non meno che del nostro corpo – delle emozioni, delle “note”, delle risonanze di carattere spirituale e poetico. La poesia del vino coincide con la sua energia espansiva: dilatando il nostro piccolo io, aprendolo a tutto ciò che possiamo definire la bellezza e la vastità dell’essere, il vino arricchisce il sentimento del nostro sentirci vivi, ci nutre come un evento intimamente legato alla forza e alla poesia del mistero vitale. Come ci aiuta a capire Gaston Bachelard (il più grande esploratore, nel Novecento, delle radici cosmiche della parola poetica) ogni autentica poesia ha un legame spontaneo, archetipico col mondo, o, per meglio dire, con gli elementi seminali del mondo descritti dalle cosmogonie arcaiche: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Questo è vero anche per il vino. I vini “di terra” possono essere pesanti e indigesti come quelli che tracannano gli operai nell’Assommoir di Zola, ma per la loro sincerità (per il loro rapporto essenziale con un terroir, un paesaggio, un luogo) possono anche aiutare i bevitori a ritrovare le verità schiette, le radici semplici, concrete e profonde del loro essere. Fra i tanti poeti che hanno evocato vini di questa specie viene in mente l’italiano americanizzato Emanuel Carnevali che, nel suo potente libro Il primo dio, parla dell’Italia come della terra per eccellenza del vino, e proprio per questo come terra dell’anima. I vini “d’aria” sono, come i migliori champagne e i più creativi prosecchi, quelli che vibrano, respirano, s’impennano scintillando nel calice, che ci aiutano a volare, che danno ali al nostro peso mortale risucchiandoci verso cieli fantastici. Ogni innamorato delle forme leggere e innocenti di ebbrezza può, mentre gusta vini di questa famiglia ideale, cogliere la verità di un pensiero del filosofo Roger Scruton quale «Il vino ci mette davanti al mistero della nostra libertà». I vini “di fuoco” sono intrisi di un’energia dionisiaca che, serpeggiando dentro di noi, ci infiamma invitandoci alla danza, alla festa, all’eros, all’avventura. Possono essere rischiosi, ma il loro calore ci apre sempre anzitutto all’incontro, alla convivialità, alla gioia. Nessun poeta è mai riuscito a evocare quel miracolo di calore da cui nasce il vino rosso, e che continua a nutrirci quando lo beviamo, come Dante quando, nel canto XXV del Purgatorio, immagina Stazio che, per spiegargli come nel feto umano l’intelletto, d’origine divina, si fonda a un certo punto con l’anima vegetativa e sensitiva, inventa questa metafora: «guarda il calor del sol che si fa vino / giunto all’omor che della vite cola». I vini “d’acqua” sono trasparenti e mistici: sembrano nati da un’alchimia paradossale o, come quello delle nozze di Cana, da una trasmutazione miracolosa della purezza; per parafrasare Emily Dickinson ci fanno presto sentire «ubriachi di rugiada», fluttuanti nella trasparenza, nella freschezza del puro “spirito”. Spesso i vini, proprio come i testi poetici, sono “misti”: contengono il fuoco e il vento, l’acqua e la terra, sia pure in proporzioni diverse. Da Omero a Dante a Rumi, dalla Dickinson a Leopardi, da Baudelaire a Rubén Dario, da Rimbaud a Yeats, da Attilio Bertolucci a Umberto Piersanti, i poeti hanno sempre dialogato col vino. Il “diritto di sognare” di cui parla Bachelard percorrendo i loro territori non è certo soltanto una fuga dal reale: i sogni indotti dalla poesia, o da quella speciale poesia che può essere il vino, ci riaprono di continuo al mondo perché ci liberano dal senso di gravità delle ideologie, perché sciolgono la durezza delle categorie mentali, aiutano a riscoprire il movimento delle cose, il fluttuare della vita. Questo alleggerimento ci rigetta fatalmente verso gli altri: il vino giusto (non quello dell’ubriachezza, ma quello della gioia, dell’agape) ci aiuta a riscoprirci fratelli. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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