lunedì 23 gennaio 2017
Parla lo psichiatra Manfred Spitzer, che a Venezia interverrà su tecnologie e apprendimento: «L’e-book va bene in spiaggia, ma per studiare servono i libri tradizionali»
Lettura e digitale Ecco perché carta canta
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Chi conosce i libri dello psichiatra Manfred Spitzer lo sa: l’autore di Demenza digitale, edito in Italia nel 2013, e del più recente Solitudine digitale (pubblicato come il precedente da Corbaccio, traduzione di Claudia Tatasciore, pagine 430, euro 19,90) non è soltanto uno studioso affermato e combattivo, ma anche un uomo molto spiritoso. Una dote, questa, che gli sta tornando molto utile per rispondere alle critiche, spesso feroci, rivolte alla sua analisi dei rischi derivanti dalla digitalizzazione. «Mettiamola così – esemplifica Spitzer –. Se volesse sapere quali sono le conseguenze delle caramelle per la salute, lei a chi si rivolgerebbe? A un medico oppure a un bambino di tre anni?».


Tedesco di nascita e formazione, visiting professor ad Harvard e oggi direttore del Centro per le neuroscienze e l’apprendimento dell’Univesitù di Ulm, Spitzer è stato chiamato a tenere uno degli interventi principali del XXXIV seminario di perfezionamento della Scuola per librai “Umberto ed Elisabetta Mauri”, nell’ambito della quale parlerà appunto degli effetti collaterali delle nuove tecnologie dell’informazione. Compresi gli e-book, che dopo l’exploit iniziale negli Usa e, in misura minore, nella stessa Germania, segnano ora una battuta d’arresto. «Ma il libro digitale ha comunque un suo mercato», concede sornione Spitzer.

Quale sarebbe?
«Quello delle signore di mezza età durante le vacanze. Lettrici forti, non più giovani, desiderose di non rovinare il romanzo che si sono portate in spiaggia. La sabbia, le macchie di crema solare, tutti i fastidi dai quali il libro digitale è al riparo. Senza trascurare il fatto che un e-reader è leggero, facile da trasportare e via dicendo. La sto mettendo in parodia, d’accordo, Ma non troppo. In realtà l’e-book può andare benissimo per una lettura di tipo disimpegnato, ma quando occorre instaurare un rapporto più profondo con il libro, ecco che la situazione si capovolge. Lo confermano molte ricerche. Una delle più accurate, realizzata nel 2015 dalla University of California, mostra con estrema chiarezza come le preferenze dei ventenni vadano nella direzione del libro di carta, che meglio si adatta alle necessità dello studio».


È il motivo per cui l’e-book, a differenza degli altri dispositivi digitale, si è rivelato capace di autolimitarsi?
«Non sono sicuro che si tratti di questo. Credo piuttosto che le persone si siano rese conto che, nel momento in cui si pensa di “acquistare” un libro digitale, in effetti non si acquista un bel niente. Si prende in prestito, semmai. Per essere più precisi, si diventa proprietari non dell’e-book in sé, ma della relativa licenza d’uso. Il che permette di leggere un testo, non di prestarlo né di lasciarlo in eredità, come accade invece con i volumi tradizionali. Intendiamoci, anche questa soluzione ha i suoi vantaggi. Si risparmia molto spazio, per esempio. Quanto al risparmio in denaro, a conti fatti il bilancio è piuttosto deludente. Per quanto riguarda le novità, in particolare, il prezzo della versione digitale rimane sproporzionato rispetto a quella cartacea».

Nei suoi libri lei insiste molto sull’invadenza degli smartphone.
«Non sono io che insisto, sono i dati a essere sempre più allarmanti e, nello stesso tempo, sempre più ignorati. Nel triennio che separa Demenza digitale, uscito in Germania nel 2012, da Solitudine digitale, del 2015, le ricerche scientifiche in questo campo si sono moltiplicate e oggi disponiamo di un’evidenza incontestabile sul legame fra l’uso eccessivo delle tecnologie digitali (con gli smartphone in testa) e una serie di patologie che vanno dalla depressione propriamente intesa agli stati d’ansia, dall’insonnia ai disturbi alimentari. Non si tratta di documenti segreti, ma di studi ormai acquisiti dalla comunità scientifica internazionale».

E come mai se ne parla così poco?
«Da una parte ci sono in gioco interessi economici colossali, non possiamo nasconderlo. Ma c’è anche un equivoco di fondo, che ci riporta al paradosso delle caramelle. Troppo spesso a sentenziare sulle meraviglie dei media digitali sono gli stessi esperti di media digitali, privi di qualsiasi competenza specifica sulla natura e il funzionamento del cervello, sui processi cognitivi, sulle implicazioni cliniche delle dipendenze. Sono utenti entusiasti e nient’altro, proprio come un bambino di tre anni è entusiasta delle sue caramelle».

Lei denuncia una cattiva informazione, insomma.
«In generale, la qualità dell’informazione ha iniziato a deteriorarsi con l’avvento della televisione ed è andata peggiorando sempre più con la diffusione di internet. Se così non fosse, non saremmo qui a discutere della cosiddetta post-verità. Un concetto che, per uno scienziato, è semplicemente ridicolo. Quando una persona si rivolge a un medico, non ha alcun interesse a conoscere il concetto teorico di verità alla quale quel medico si ispira. Vuole sapere se ha o non ha il cancro, se è o non è incinta, e così via. Nel mondo reale non c’è spazio per la post-verità. Esistono i fatti, non i fattoidi, con buona pace dei motori di ricerca».

Adesso se la prende anche con Google?
«Guardi, è perfettamente inutile avere a disposizione l’elenco delle venti o delle duecento opinioni più diffuse su un determinato argomento. A meno che non si disponga già di competenze adeguate, è chiaro. A dispetto della retorica corrente, Google non è uno strumento di conoscenza. Va benissimo per recuperare informazioni, a patto che l’utente sia in grado di distinguere fra notizie verificate e falsificazioni più o meno intenzionali. Bisogna aver studiato molto, prima di adoperare la rete in modo efficace. E per studio intendo quello sui libri di carta, corredato da appunti presi a mano».

Perché a mano?
«Perché la scrittura tradizionale favorisce il processo di memorizzazione molto più di quella sulla tastiera. Anche su questo disponiamo di dati incontestabili, glielo posso assicurare».

L’evento. Numeri e idee sugli scaffali

L’intervento dello psichiatra tedesco Manfred Spitzer è uno dei momenti qualificanti della giornata conclusiva del XXXIV seminario di perfezionamento della Scuola per librai “Umberto ed Elisabetta Mauri”, che si terrà presso la Fondazione Cini di Venezia dal 24 al 27 gennaio. Quattro giorni di incontri e dibattiti con esperti e professionisti provenienti da tutto il mondo e con la partecipazione, tra gli altri, di Ferruccio de Bortoli, Annamaria Testa, Romano Montroni, Gherardo Colombo, Cesare De Michelis, Luigi Spagnol e numerosi altri. La sessione di venerdì sarà interamente dedicata al tema “Dal virtuale al reale” e culminerà nella lezione di Spitzer, preceduta da una relazione dell’economista Lucrezia Reichlin sul ruolo delle banche centrali in ambito economico e da un dibattito coordinato da Stefano Mauri e Giovanna Zucconi, nel corso del quale si susseguiranno le voci di numerosi editori e librai europei, tra cui Teresa Cremisi. Nell’occasione verrà anche assegnato il premio alla miglior libreria italiana. Per informazioni: www.scuolalibraiuem.it.

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