venerdì 25 gennaio 2019
Una sfida che continua a suon di rappresentazioni. Nel 2019 spopola il cigno di Busseto con 335 spettacoli nel mondo. 117 i titoli del genio tedesco. In Italia è monopolio verdiano: 39 opere contro 4
Richard Wagner e Giuseppe Verdi

Richard Wagner e Giuseppe Verdi

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Se fosse solo una questione di numeri, l’eterno duello fra Giuseppe Verdi e Richard Wagner avrebbe un unico, indiscusso vincitore: il “cigno” di Busseto. Che sconfigge per tre a uno l’irrequieta penna tedesca. Basta scorrere i cartelloni dei teatri d’opera di tutto il mondo per avere un risultato del genere. Nel 2019 sono 335 i titoli verdiani (compreso il Requiem) che andranno in scena nei maggiori templi lirici dei cinque continenti; quelli del vate di Bayreuth appena 117. A guidare la classifica dei capolavori più rappresentati che portano la firma del compositore italiano – secondo il sito operabase.com – è La traviata, presente in 62 teatri nei prossimi dodici mesi, seguito da Rigoletto (39). Invece il dramma di Wagner più “diffuso” è L’olandese volante che andrà in scena su 24 palcoscenici diversi; secondo posto per Valchiria (14) e terzo per L’oro del Reno (12).


In Italia Verdi furoreggia: quest’anno ha 39 ribalte (incluse quelle per due galà). Wagner appena 4: il Maggio Musicale Fiorentino che ha appena proposto L’olandese volante e che ad aprile presenterà la versione per i bambini del “Vascello fantasma”; il Petruzzelli di Bari e il San Carlo di Napoli che hanno in programma Valchiria fra aprile e maggio. Invece, ad esempio, La traviata va in scena per oltre due mesi (un record) alla Scala di Milano o Simon Boccanegra apre domenica al Petruzzelli la nuova stagione. Soltanto in Germania la distanza fra i due si riduce, anche se il prediletto resta sempre “Peppin”: 75 i melodrammi verdiani previsti; 61 quelli del cantore di Sigfrido.

Tutti stregati dal padre di Nabuccoe non da quello di Parsifal? «È riduttivo metterla in questi termini. Va premesso che le opere del maestro di Lipsia sono in linea di massima più complesse da allestire: richiedono una grande orchestra e hanno una lunghezza non trascurabile. Poi i titoli di Wagner sono soprattutto dieci, più tre giovanili; quelli di Verdi ventotto», spiega Elvio Giudici che ai due “giganti” dedica il quarto volume appena uscito (L’Ottocento, Verdi e Wagner; il Saggiatore; pagine 1704; euro 55) della sua monumentale serie “L’opera. Storia, teatro, regia”. E aggiunge: «Smettiamo di parlare di rivalità fra i due. Si tratta di una competizione creata a tavolino dal pubblico, anche per ragioni politiche. Sono gli spettatori che li hanno separati». Vero, come dimostra quello che successe alla vigilia del bicentenario della nascita di entrambi (il 2013) quando La Scala inaugurò la sua stagione il 7 dicembre 2012 con Lohengrin: proteste dei verdiani; commenti stizziti; polemiche partitiche. E adesso sono i wagneriani a lamentarsi perché al Piermarini non si vede un’opera del loro beniamino dal 2017 e non avverrà almeno fino al prossimo anno.

Nella Penisola la diatriba V/W inizia a metà Ottocento quando nel pieno monopolio verdiano viene rappresentato Lohengrin a Bologna e poi a Firenze. «Possiamo dire che il primo derby fra Italia e Germania non sia stato giocato sui campi da calcio, ma nei palcoscenici dei teatri lirici», scherza l’attore pistoiese Alessandro Timpanaro che dal 2014 cavalca la lotta artistica nella popolare pagina Facebook (e poi nel libro) Le avventure di Verdi e Wagner in cui a colpi di tweet e post i due se ne dicono di tutti i colori, fra battute al vetriolo e aneddoti pungenti, contornati dalle freddure di altri “big” della lirica. «Mai i due si sono incontrati. Mai si sono scritti – ricorda Timpanaro –. Hanno vissuto fianco a fianco senza incrociarsi. Tuttavia, ognuno con le proprie partiture straordinarie hanno rivoluzionato l’opera».


Geni diversi, opposti, eppure per certi versi simili. Economo, contadino e senza velleità cosmopolite né extraoperistiche Verdi. Spendaccione, librettista, teorico, con l’ambizione di diventare un artista “totale” Wagner. L’uno ha voluto e finanziato una Casa di riposo per musicisti a Milano («La mia più grande opera», confidò); l’altro ha elemosinato fondi e rischiato il crac per costruire il suo teatro a Bayreuth, destinato a perpetuare la tradizione esclusiva delle proprie opere. «L’autore di Macbeth e Rigoletto mette al centro l’uomo; e anche l’azione diventa occasione per scavare nella psicologia dei personaggi – spiega Giudici –. Wagner, con la sua “musica dell’avvenire”, privilegia l’umano nonostante si affidi per lo più al mito». Guai, comunque, a fermarsi allo spartito di Lohengrin pieno di annotazioni negative di Verdi dopo la prima a Bologna o alla lettera sempre di Verdi che definiva il coetaneo tedesco un «matto» dopo aver sentito la sinfonia di Tannhäuser a Parigi. E altrettanto vale per gli epiteti antiverdiani di Cosima Wagner, seconda moglie del ribelle romantico. «Entrambi sono stati grandiosi uomini di teatro – sostiene lo studioso –. E, seppur da angolature differenti, hanno inteso creare una drammaturgia musicale attraverso la parola. Ciò significa che i loro lavori sono potentemente teatrali: un teatro in musica e non soltanto una musica cantata. Verdi ha puntato sulla “parola scenica”, ossia su una parola che scolpisce. Wagner, benché sia stato un efficace librettista, ha affidato la forza della “voce” all’orchestra che avvolge lo spettatore con un’onda melodica. Sicuramente i due hanno rotto gli schemi tipici dell’opera, senza più divisioni in “pezzi chiusi”, arie, duetti, terzetti».

Dal possente volume di Giudici emerge che negli ultimi anni le regie meno banali hanno riguardato proprio Verdi e Wagner. «Perché sono nostri contemporanei, in grado di parlare all’oggi – afferma il critico musicale –. Spesso sentiamo ripetere di fronte a una trasposizione ritenuta dissacratoria: “Non c’è nel libretto...”. Oppure: “La regia non deve dare fastidio alla musica”. È vero l’esatto contrario. Lo spettacolo deve dare fastidio alla musica, dove per fastidio si intende il suo continuo interloquire con essa, aprendo orizzonti sempre più vasti che la musica riempirà per intero, qualora sia davvero grande e contenga quella componente teatrale che i capolavori di Verdi e Wagner hanno. E non bisogna dimenticarsi che alcune regie d’epoca, che adesso sono considerate un classico, come quelle di Giorgio Strehler o di Luchino Visconti fra cui la nota Traviata alla Scala con Maria Callas, erano state contestate». Vorrà dire che certe produzioni accompagnate dai fischi come Macbeth alla Fenice o Un ballo in maschera alla Scala ideate da Damiano Michieletto o l’ultimo Ring a Bayreuth nato dall’eclettica mente di Frank Castorf diventeranno tradizionali? «Abbiamo bisogno di registi intelligenti – conclude Giudici – artifici di notevoli spettacoli che abbiano come principale virtù quella di far discutere. Non può valere quanto ripeteva Cosima Wagner per bloccare ogni cambiamento a Bayreuth: “Qui si sono posati gli occhi del maestro”. È patetico replicare per l’eternità quanto ci viene consegnato dalla memoria storica. Tradiremmo anche la creatività sovversiva di Verdi e Wagner».

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