giovedì 12 novembre 2020
Una nuova edizione di “Tempo di uccidere” consente di apprezzare la profondità del poliedrico intellettuale, narratore fuori dagli schemi
Ennio Flaiano

Ennio Flaiano - Effigie

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Alla sottovalutazione di Tempo di uccidere, il romanzo che Ennio Flaiano pubblicò nel ’47 e vede ora una più che meritata riedizione da Adelphi (pagine 330, euro 19,00), contribuì non poco Flaiano stesso, in forza dello straordinario eclettismo che gli consentì di eccellere nel giornalismo e nella critica teatrale e cinematografica, nell’attività di saggista ed elzevirista, oltre che di sceneggiatore dei capolavori di Fellini e di altri grandi registi, arrivando a firmare ben 60 copioni. Così come ne furono complici la sua maschera di sferzante ironia, la posa di chi non prende niente davvero sul serio, e quindi nemmeno il proprio talento letterario.

Maestro della satira, di giochi di parole e neologismi (“paparazzo” e “vitellone” sono tra i suoi più famosi), era capace come pochi di mettere a nudo ambizioni e meschinità umane grazie a una straordinaria sensibilità per certi frammenti di quotidiano da cui scaturivano anche i suoi celebri aforismi, in cui al registro divertito e sardonico si alterna quello più amaro e profondo. Accolto con diffidenza dalla critica che si concentrò su alcuni presunti limiti formali a scapito del resto, forse anche perché l’ambientazione rimandava a quella guerra d’Etiopia che nessuno amava ricordare ed è rimasta uno degli eventi più rimossi della nostra storia, il romanzo manifesta una visione antieroica fin dall’incipit in cui il protagonista, un ufficiale del Regio esercito poco ligio al dovere e afflitto dal mal di denti, esce dai ranghi per trovare un dentista e si perde nella boscaglia. Quasi subito si imbatte in una giovane indigena che con muta condiscendenza gli si concede, ma poi la colpisce incidentalmente con una rivoltellata e finisce per darle il colpo di grazia, mosso da un’ambigua mescolanza di pietà ed egoismo. Vorrebbe e si crede capace di passare oltre, ma ben presto il peso dell’atto compiuto gli piomba addosso fino a diventare un’ossessione, in cui al rimorso si somma il senso di minaccia quando da un indizio si convince che la ragazza fosse affetta da lebbra, e di esserne stato contagiato. Inizia così una peregrinazione per l’altopiano etiopico, che perde i contorni della pur scabra fascinazione iniziale («Una pace antica, in quel luogo. Ogni cosa lasciata come il primo giorno, il giorno della grande inaugurazione») per assumere quelli sempre più deformati e surreali conferitigli dallo sguardo allucinato del protagonista, sprofondato in un abisso di rimorso e paura.

Dopo varie peregrinazioni dominate dal parossismo che lo ha avvinto, indotto a commettere altri reati che lo convincono di non avere più alcuna via di uscita, calamitato dal luogo dove ha seppellito la sua vittima, dove vegliato da un vecchio ascari trascorre un lungo periodo di espiazione che però non lo libera dal disgusto di sé e di tutto, l’ufficiale scoprirà alla fine che nessuno lo ha denunciato per il male che ha commesso, non è ricercato come temeva e può tornare in Italia, con l’amara conclusione che «Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri». Dovrà però continuare a scontare la pesante condanna inflittagli dal proprio tribunale interiore, con la consapevolezza della propria debolezza morale che l’esperienza vissuta gli ha rivelato, tarato da un’insanabile colpa accanto a cui permane la simbolica minaccia della lebbra, che a causa della lunga incubazione della malattia lo seguirà a lungo. Tempo di uccidere si ripropone oggi come un romanzo controccorrente e in qualche modo anacronistico, lontano dai dettami del neorealismo in quel momento imperante, in cui un protagonista spaesato e irresoluto richiama piuttosto l’esistenzialismo di Camus e nel contempo quel modello di “inetto” su cui sono imperniato i romanzi di Svevo e Pirandello, in cui il Caso è forza occulta dominante. Il dramma individuale del protagonista acquista elementi di universalità, e anche una valenza storica oggi più attuale che mai, con la rappresentazione di uno scenario bellico popolato di ufficiali che si arricchiscono con traffici illeciti, balordi soldati che preferiscono il sesso con le indigene al dovere patriottico, scorci delle stragi perpetrate sugli abissini, e soprattutto nella denuncia delle aberrazioni del colonialismo. «L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza», recita un altro aforisma, a dimostrazione di come la dote della sintesi verbale guidasse Flaiano anche nel testo narrativo. Come ebbe a dichiarare in un’intervista: «La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso della scrittura»

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