sabato 11 settembre 2021
Il Leone d'oro alla regista francese Diwan con "L'evenement", film su una tenace negazione della vita. A Sorrentino Il Leone d'argento - Gran Premio della Giuria con "È stata la mano di Dio"
La regista francese Audrey Diwan con il Leone d'oro

La regista francese Audrey Diwan con il Leone d'oro - Ansa

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Il cinema italiano piace alla giuria della 78esima Mostra del Cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon Ho che d’altra parte non ha mai nascosto l’ammirazione per i nostri registi e i nostri capolavori, vecchi e nuovi.

E così Paolo Sorrentino, un “nuovo” Paolo Sorrentino, conquista il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria con È stata la mano di Dio, un film intimo e commovente, tra i più apprezzati al Festival anche dalla critica, che nella Napoli degli anni Ottanta, quella in festa per l’arrivo di Diego Armando Maradona, rievoca la tragedia famigliare che si è abbattuta sul regista a soli diciassette anni. “Guardate dove sono arrivato facendo film con Toni Servillo – dice il regista – e in lacrime durante i ringraziamenti aggiunge: “Ci sono due scene che non ho inserito nel film, una è un sogno che non ho fatto dove Maradona vi ringrazia e l’altra è quella del giorno del funerale dei miei genitori. Il preside mandò solo quattro ragazzi e io ci rimasi male. Ma stasera è venuta tutta la classe, e siete voi».

Paolo Sorrentino con il Leone d'Argento

Paolo Sorrentino con il Leone d'Argento - Ansa

Il film, che arriverà nelle sale il 24 novembre e sarà poi disponibile su Netflix da 15 dicembre, vede protagonista il giovane Filippo Stocchi, che si è aggiudicato il Premio Marcello Mastroianni dedicato proprio agli attori emergenti.

Michelangelo Frammartino ottiene invece il Premio Speciale della Giuria per Il buco, ambientato nelle viscere nella terra, nell’Abisso del Bifurto, dove giovani speleologi si sono calati con le macchine da presa per ricostruire la spedizione speleologica che nell’Italia dei grattacieli e del boom economico degli anni Sessanta portò alla scoperta di una grotta che ai tempi era la terza più profonda del mondo. Un lavoro sperimentale, “un salto nel vuoto produttivo”, che rappresenta una vera sfida anche per lo spettatore, molto apprezzato da una giuria composta da ben quattro registi.

Ma a vincere a Venezia quest’anno sono anche le donne. Dopo Nomadland, che la scorsa edizione consegnò il principale riconoscimento della Mostra alla cino-americana Chloé Zhao, chiamata in questa volta in giuria, a vincere il Leone d’oro di VeneziaDiwa78 è un’altra regista, la francese Audrey Diwan con L’événement, tratto dall’omonimo romanzo di Annie Ernaux, che racconta di un’adolescente decisa ad abortire nella Francia degli anni Sessanta, dove l’interruzione di gravidanza era un reato. Doloroso, a volte sgradevole, ma sostenuto da una messa in scena molto efficace, il film restituisce tutta la determinazione della giovane, disposta anche a rischiare la propria vita affidandosi a pratiche mediche brutali, spesso letali, ma traccia anche un vivido affresco di una società estremamente crudele nei confronti delle donne che concepivano dei figli fuori dal matrimonio. A causa della sua gravidanza la giovane protagonista viene cacciata dalla scuola e se darà alla luce suo figlio non le verrà consentito di proseguire questi studi universitari che le consentiranno di diventare una delle più apprezzate scrittrici contemporanee. «Ogni film su questo argomento è difficile, il mio è un viaggio nella pelle di questa giovane donna». E in lacrime invita a salire sul palco la protagonista del film, Anamaria Vartolomei.

Il premio della regia va a un’altra donna, Jane Campion, che a partire dal romanzo di Thomas Savage costruisce un complesso e ambiguo romanzo di formazione, Il potere del cane (nei cinema a novembre e su Netflix dall’1 dicembre), ambientato in un west che maschera crisi e tensioni sotto una durezza destinata a creparsi.

A Penelope Cruz va invece la Coppa Volpi per il suo difficile ruolo in Madres Paralelas di Pedro Almodovar in cui interpreta una madre forte e fragile al tempo stesso, generosa e meschina, vitale e ambigua, alle prese con la scoperta dell’identità di sua figlia e di quella dei desaparecidos in una fossa comune del suo villaggio. «Dedico il premio ad altre due madri parallele, la mia e quella di mio marito, Javier Bardem, che è da poco scomparsa e che mi aveva predetto questo premio».

È una madre imperfetta ma straordinariamente umana anche Olivia Colman, protagonista di The Lost Daughter.

Il Premio per la migliore sceneggiatura è andato a Maggie Gyllenhaal, che qui dirige il suo primo film adattando sul grande schermo La figlia oscura di Elena Ferrante, il che aggiunge un altro pezzetto d’Italia ai premi di questa edizione.

La Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile va invece a John Ancilla per On the Job: the Missing 8 del filippino Erik Matti, su un giornalista filogovernativo che dopo la scomparsa del fratello giornalista, di sei suoi colleghi e del nipotino comincia a indagare sull’accaduto scoperchiando un sistema di corruzione e criminalità capeggiato proprio dai politici che difendeva con le sue trasmissioni radiofoniche.

Nel concorso della sezione Orizzonti trionfa invece Piligrimai del lituano Laurynas Bareiša che mette in scena una personalissima elaborazione del lutto attraverso il pellegrinaggio di un uomo sui luoghi che hanno visto la presenza del fratello poco prima della sua morte. Il frenetico A plein temps del francese Èric Gravel su una madre quotidianamente in lotta contro il tempo vince per la regia e l’interpretazione di Laure Calamy, mentre il Premio Speciale della Giuria va a El gran movimiento di Kiro Russo.

Il miglior attore è Piseth Chun per White Building del cambogiano Kavich Neang la migliore sceneggiatura è quella di 107 Mothers dell’ucraino Peter Kerekes. Migliore opera prima infine è Immaculat di Monica Stan e George Chiper-Lilemark, presentato alle Giornate degli Autori, sul percorso di una ragazza vittima della dipendenza. (Alessandra De Luca)

Secondo noi

QUANDO L'IDEOLOGIA PREVALE SULL'ARTE di Massimo Iondini

Nell’imbarazzo della scelta ha vinto il ruggito del “politically correct”. Il film della regista francese Audrey Diwan non è il più bello, non è il più originale e nemmeno il meglio girato tra quelli in concorso, ma questa non è una novità né una notizia perché è sovente capitato che alla Mostra di Venezia (così come per la Palma di Cannes e per l’Orso di Berlino) il Leone d’oro non finisse nelle mani più meritevoli. Il fatto è che stavolta di mani più meritevoli ce n’erano tante. Italiane comprese, a partire da quelle di Paolo Sorrentino che di consolarsi avrà comunque modo con il Gran Premio della Giuria. Il concorso al Lido finisce invece con un segno diametralmente opposto rispetto a quello dell’inaugurazione, illuminata dalla proiezione di Madres paralelas di Pedro Almodóvar. Lì il vitale, seppur drammatico, incontro in una stanza d’ospedale tra due partorienti pronte a mettere al mondo le loro inattese e, all’inizio, non desiderate creature. Qui, nel film Leone d’oro L’événement, la cruda e disperata rappresentazione di una pervicace negazione della vita. Che trova il proprio abisso nella durezza della scena di un aborto clandestino. Come se, alla fine, debba sempre prevalere una letale ideologia fintamente progressista, anche a spese dell’arte.

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