mercoledì 15 aprile 2015
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Se sia di Leonardo oppure si debba alla mano di Lorenzo di Credi, alla giovane che sta fotografando la tavoletta dell’Annunciazione proveniente dal Louvre ed esposta nella mostra di Palazzo Reale probabilmente interessa poco, il solo pensiero che possa esserci il genio di Leonardo basta per scattare una foto col cellulare ad alta definizione (il quadro è protetto da un vetro). Di fianco a lei, un ragazzo (amico o altro qui poco importa) per fare lo spiritoso commenta con sorrisetto ironico: «L’Annunciazione formato tablet», allude infatti al rapporto di dimensioni che la tavoletta ha con la più grande  Annunciazione degli Uffizi, questa dipinta certamente da Leonardo. E subito aggiunge: «Molto touch» (alludendo allo schermo tattile di tablet e affini). Insomma, viviamo in un’altra epoca. Non dico rispetto a Leonardo, ma, più prossima a noi, a quella dove i tablet erano merce rara (dieci anni fa?), e quando si entrava in una mostra come questa, al massimo vedevi qualche giapponese con grosse Nikon o Canon che tentavano di scattare foto subito repressi dai custodi: niente foto, please! Ma la domanda è questa: e Leonardo, cosa direbbe? Il genio italiano per antonomasia, cui Palazzo Reale dedica una vasta esposizione, in gran parte composta da disegni e opere di altri artisti a corredo (Leonardo da Vinci. Il disegno del mondo, catalogo Skira); ecco, lui, che alle novità tecniche dedicò studi ed escogitazioni notevoli, come avrebbe reagito a quel siparietto di ragazza e ragazzo davanti alla piccola Annunciazione?Sarà perché considero Leonardo un tipo altero e a suo modo filosofo (il presunto Autoritratto dell’Albertina, che probabilmente è un ritratto di filosofo, presenta quel sorriso enigmatico da sibilla che evoca il sapiente più che il tipo comico), non me lo vedo a farsi una risata per tanta beata ingenuità giovanile. Forse avrebbe detto ai due giovani: aprite gli occhi, non lasciate che la magnifica invenzione (cellulare o tablet), vi privi del rapporto diretto con qualcosa che va visto e sentito, prima ancora che memorizzato nel vostro deposito delle immagini. L’effetto Leonardo dura da decenni. È diventato un “oggetto di consumo”, garantisce il made in Italy, è una specie di icona pop, un testimonial nel senso proprio del termine: popolare e capace di essere un condensatore di genio, che suscita immediatamente l’ammirazione e l’orgoglio di essere italiani. Per questo Milano apre le danze delle mostre che segneranno il passo del semestre dedicato all’Expo, con quello che a detta di tutti fu un distillato purissimo dell’intelligenza e dell’immaginazione umana, qualcosa d’irripetibile di cui nella storia si danno casi che si contano sulle dita di una mano.Come mai, allora, visitando la mostra di Palazzo Reale ci avverto qualcosa di educatamente stantio? Non sto dicendo che sia un brutto spettacolo, chiariamo subito. Mostra impegnativa, una delle maggiori mai allestite su Leonardo, catalogo monumentale di oltre seicento pagine. I curatori della mostra, Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, firmano cinque dei venti saggi che accompagnano le dodici sezioni, e un certo numero di schede delle singole opere. L’allestimento è elegante, incline al tenebroso, i prestiti sono importanti (in particolare quelli della regina d’Inghilterra e del Louvre); le opere dipinte da Leonardo sono sei – la già citata Annunciazione, la Madonna con Bambino di Washington, il San Girolamo dei Musei Vaticani, il Ritratto di dama del Louvre, il Musico dell’Ambrosiana, il San Giovanni Battista del Louvre –, con a corredo quelle di Botticelli, Andrea del Verrocchio, Filippino Lippi, Giovanni Bellini, Antonello da Messina, Bramante, la Città ideale di Urbino, gli inevitabili leonardeschi (Francesco Galli, Marco d’Oggiono, Giampietrino, Boltraffio, Solario), e l’oltremodo inevitabile capitolo finale sul mito di Leonardo: dove le versioni della Gioconda nuda dipinte nel Cinquecento rischiano di essere quasi più provocatorie dell’arcifamoso scherzo di Duchamp che mise i baffi a Monna Lisa (qui esposta in una versione da multiplo, tirata in 35 esemplari, precisamente il numero 12 che Arturo Schwarz ha donato al museo israeliano di Gerusalemme).Ma niente è mai completamente nuovo. Nella Parigi d’Ottocento che si avvia alla fine del secolo c’è voglia di rompere gli schemi del perbenismo, così a Montmartre apre i battenti nel 1882 “Le Chat Noir”, un locale che diventa ritrovo d’artisti e che ha le sue parole d’ordine in sorprendere, meravigliare, prendere il visitatore in contropiede, scandalizzarlo oppure strappargli una risata di compatimento o di sarcasmo. Un sentimento, questo, che con ogni probabilità provarono molti quando, nel 1887, si trovarono di fronte una fotografia della Gioconda che fumava la pipa, col suo bel fumo che saliva verso l’alto disegnando sul fondo scuro cinque anelli bianchi. Era un’opera di Eugène Bataille, in arte Sapeck, e il titolo era Mona Lisa avec une pipe o Le Rire. Nello spartano depliant che accompagnava l’esposizione, si vede l’opera di Sapeck e, poco più in basso, una caricatura di Leonardo che lo raffigura piccolo e rattrappito come uno gnomo delle favole, la barba e i capelli lunghi di uno che sembra avere l’età di Matusalemme, mentre tiene nelle mani tavolozza e pennelli, insinuando così di essere lui l’autore della bravata. Non sarebbe stato affatto male vedere accanto al ready-made di Duchamp questa immagine di Sapeck, immaginata trent’anni prima della Gioconda baffuta.Per finire, una considerazione di merito su un aspetto che l’esposizione leonardesca mette sul tavolo pur senza approfondirlo troppo, presa com’è a dare una visione “totale” del genio. Una delle sale centrali sviluppa il paragone delle arti ovvero i rapporti di pittura e disegno con la scultura (studi recenti hanno messo in luce come in una prima versione del Trattato Leonardo attribuisse il primato nelle arti non alla pittura, “cosa mentale”, ma alla plastica, ovvero a quell’arte che sembra essere il ponte tra la scultura come “levare” e la pittura come arte del “mettere” perché dispone il colore sulla tela o sulla tavola di legno). Il confronto è col Verrocchio, ovviamente; e già in un saggio pionieristico del 1989, poi ripubblicato come libro, Alessandro Parronchi elaborava alcune Proposte per Leonardo scultore, in particolare su un busto di Cristo fanciullo e su un Busto di vecchio. La mostra di Milano si concentra sulla possibile attribuzione a Leonardo di un Guerriero a cavallo e su un Cavallo al passo, due piccole sculture in bronzo, una di collezione privata e l’altra del Museo di Budapest, e intorno dispiega una serie di riscontri assai pertinenti (tanto più che Leonardo ideò due monumenti equestri, quelli per Ludovico Sforza e per Gian Giacomo Trivulzio, entrambi non realizzati). Dunque mi domando perché, invece di concepire una mostra ancora una volta “generalista” su Leonardo, non si sia battuta la strada della sua possibile opera di scultore, pista che, al di là delle questioni filologiche e di ricerca sulle cose già documentate, rappresenta il versante oggi forse più entusiasmante per una ricerca storica.
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