domenica 18 dicembre 2022
Edizione critica per il “Momo” del celebre architetto, sintesi del suo “umanesimo tragico”
Leon Battista Alberti in un anonimo ritratto seicentesco conservato agli Uffizi

Leon Battista Alberti in un anonimo ritratto seicentesco conservato agli Uffizi - WikiCommons

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Leon Battista Alberti è ricordato spesso come uno dei geniali architetti dell’Umanesimo, autore del De re aedificatoria e artefice, tra le altre, della Facciata di Santa Maria Novella a Firenze e dell’incompiuto Tempio Malatestiano a Rimini. Ma è stato anche linguista, pittore, matematico, crittografo e filosofo, peraltro di altissimo profilo, rappresentante di quello che Massimo Cacciari ha ben definito umanesimo tragico. E il suo Momo (Luni , pagine 728, euro 38,00), il capolavoro in prosa dell’Umanesimo quattrocentesco, scritto in latino intorno al 1450 e tradotto per l’edizione critica da Mario Martelli, lo testimonia appieno. Si tratta di un «romanzo pseudo-mitologico, impregnato di graffiante humor e denso di indecifrabili allusioni al mondo contemporaneo» scrive il curatore dell’edizione critica, Francesco Furlan, nell’introduzione al volume. Esso è cosparso di “risi e scherzi”, considerati da Alberti un modo opportuno di fare filosofia, più efficace di quello tradizionale e in polemica con la pedanteria degli intellettuali contemporanei. Nel romanzo, Giove si trova in seria difficoltà, per la sua arroganza e inefficienza. Abbandonato dalla sua olimpica serenità non riesce a sopportare le dure critiche di cui è oggetto. A rivolgergliele è un dio querulo, amareggiato, irascibile, scontroso e combinatore di pasticci, Momo per l’appunto. Questo dio insolente e ribelle fa appello a tutta la sua causticità per lamentarsi contro la ricchezza, la supponenza dei potenti pensando che tutto sia permesso. E lo fa invocando le libertà di cui uomini e cittadini sarebbero portatori se non fossero soverchiati dalle rapine dei potenti. Ma Momo non è né un dio serio né un essere rispettabile. È soprattutto uno stravagante agitatore, mai amichevole e persino malvagio come confermano i suoi scherni, trucchi e giaculatorie, che finiscono per mettere in pericolo l’universo tutto. Infatti, questo dio empio, disprezzando gli umani tanto quanto gli immortali, ama odiare e al contempo essere odiato. Non esita a prendersi gioco di tutto e di tutti, in particolare di quella stirpe di uomini chiamati filosofi. Più ci si addentra nelle pagine satiriche di Momo, e più sembra che lo sfrenato divertissement del grande umanista Leon Battista Alberti (1404-1472) abbia per bersaglio il mondo che lo circonda e parli della nostra contemporaneità, per quanto la società attuale sia ovviamente molto diversa da quella quattrocentesca. Se è forte la tentazione di ridurre il testo del grande umanista a una allegoria politica, adottarla come sola prospettiva significherebbe però porsi nelle condizioni di farsi sfuggire il senso più profondo della fatica dall’architetto e filosofo. Considerarla sotto l’aspetto politico sarebbe, comunque, in un certo senso giustificato, poiché l’autore, nel proemio, avverte che dalla lettura si potranno apprendere «alcune cose riguardanti la formazione dell’ottimo principe, e dall’altra, ti si offrano non pochissimi elementi relativi alla conoscenza dei costumi di coloro che al principe stanno d’intorno », adombrando l’idea che ne saranno fustigati i cattivi costumi. In questa satira si riconosce la vena buffonesca e dotta di Luciano di Samosata (II secolo), ma anche uno stile che sarà, qualche decennio dopo, accolto da Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia (1511). Alberti, però, sembra molto più radicale, sfrontato e sarcastico. Perché Momo, alla fine, non esclude nulla dalla sua vena fustigatrice. La grandezza degli dei, immaginati come rappresentazioni del carattere degli uomini che fanno da corona al principe ma anche come tratti caratteristici dell’anima, è finita. Lo stesso Giove non possiede affatto l’auctoritas dell’ottimo principe, anzi. È finita, al contempo, la dignità degli uomini, tutti imbroglioni e criminali. Così le virtù. Non rimangono che l’amarezza e l’assurdo, per fare fronte alle quali non si potrà che ridere. Ecco forse il motivo per cui questo libro non è mai stato pubblicato da Alberti, che tuttavia ha continuato a rimaneggiare e rielaborare, di anno in anno, fino alla fine, anche se delle copie manoscritte erano già in circolazione. Probabilmente perché il suo contenuto, oltre che lo stile adottato, lo avrebbero messo in difficoltà come era già successo a Firenze prima del suo arrivo a Roma nell’estate del 1443. Si tratta di un capolavoro dimenticato, tutto da scoprire, alla pari dell’Alberti filosofo, di cui tra qualche mese Einaudi manderà in stampa I libri della famiglia. Momo però sottotraccia rivela un nucleo filosofico di enorme portata che rischia di essere occultato dalle vicende del protagonista. Come sottolinea con avvedutezza nella postfazione Mario Martelli Momo è una vera e propria commedia degli equivoci che nella organizzazione della trama e nello stile scelto rivela il proprio cuore teoretico. Non sono le vicende di Momo ma l’insieme di quanto accade che mostra come la condizione umana porti a «capire l’opposto di quello che è, perché non mai sappiamo con esattezza quello che in effetti succede - precisa Martelli - non per questo rinunciando a voler tutto interpretare. Prendere provvedimenti che si risolvono in risultati opposti a quello cui la ragione ci convinceva dovessero portare» dal momento che la ragione non è in grado di conoscere il reale. Eppure essa non rinuncia ad assediare la realtà per comprenderla, come lo stesso Momo che in mezzo alle acque, scrive Alberti, «legato e incatenato, è più interessato a conoscere la causa di tanto terribile tempesta che non dolente per le sue sventure».

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