venerdì 20 agosto 2010
Nell'estate 1980 riaprirono le frontiere del calcio e nel nostro campionato di serie A arrivarono undici "pionieri" con passaporto non italiano. Oggi sono saliti a 233 e sono in aumento. Dalla legge di allora all'introduzione della sentenza Bosman, gli stranieri si sono moltiplicati in maniera preoccupante.
- Non è un calcio per italiani di Umberto Folena
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Come cambia anche il mondo globale del pallone italico: in trent’anni è passato da 11 stranieri a 233. E alla fine di quest’ultimo mercato estivo, chissà quanti saranno i nuovi volti della legione straniera. Retaggio da rete di porta dei vuoti anni Ottanta, nell’estate dell’inizio di quel decennio. Cosa è rimasto di quell’agosto del 1980? Un boato tremendo alla stazione di Bologna. Certo, il 2 agosto, la strage con 85 morti, vittime innocenti delle follia terrorista. Una nube di polvere avvolta ancora nel mistero che ha spazzato via d’un colpo anche quell’aereo che il 27 giugno si andò a schiantare a largo del mare di Ustica. In mezzo a tanto orrore, all’improvviso, come un pallone, rimbalzarono i “nuovi” sogni di cuoio che parlavano straniero. In quell’agosto di trent’anni fa, sotto all’ombrellone, davanti agli alberghi gremiti (pensione completa a 15 mila lire), come bandiere sventolavano le gazzette che riportavano la notizia sensazionale: «Sbarcano gli stranieri in Serie A». Dopo l’embargo del 1966, seguito alla “Corea azzurra” al Mondiale inglese, il nostro calcio riapriva le frontiere. Lo faceva, guarda caso, in un’altra estate scandalosa, quella del primo Calcioscommesse che aveva portato alla retrocessione di Milan e Lazio in Serie B. Direttore sportivo della squadra romana era un “certo” Luciano Moggi il quale si era già accaparrato le prestazioni del forte olandese Renè van de Kerkhof (gemello di Willy). Ma eravamo ancora all’anno 15 “a.B”, ovvero “avanti Bosman” che decretava la fine delle limitazioni sul numero dei giocatori stranieri-comunitari tesserabili. Allora, lo sfortunato centrocampista oranje della Lazio, non potendo essere schierato nel campionato di Serie B non arrivò mai a Roma. Mentre la sponda laziale era in tormento, quella romanista all’aeroporto di Fiumicino il 10 agosto accoglieva in massa (5mila tifosi giallorossi) quello che per la Curva Sud sarebbe diventato «l’ottavo Re di Roma», Paulo Roberto Falcao. Il senatore Dino Viola lo acquistò per 1 miliardo e mezzo di vecchie lire, una bella cifra, ma ben ripagata per il divino “Farcao” che ammaliava per il passo elegante e le giocate da maestro del fùtbolbailado. «Vinceremo lo scudetto», promise il re giallorosso e puntuale, tre anni più tardi, arrivò il secondo storico tricolore della Roma. Una promessa che non potè mantenere invece l’argentino Daniel Bertoni che la famiglia Pontello portò alla Fiorentina sborsando la bella cifra di 2 miliardi e 700 milioni di lire. Il più pagato di quella squadra di “undici pionieri” (complessivamente costarono 15 miliardi): i primi con passaporto non italiano a “rivarcare” le nostre frontiere. Il regolamento ancora recitava tassativo: un solo straniero tesserabile per ogni club. Così, nel campionato ancora relegato alla dimensione più umana delle 16 squadre ci furono anche 5 club (Brescia, Como, Catanzaro, Ascoli e Cagliari) che non poterono permettersi il lusso dello straniero che tanto faceva sognare le piazze e che ammaliava i piccoli collezionisti delle figurine Panini, a caccia del nuovo esotico campione. Ma non tutti erano dei fuoriclasse come Falcao e Bertoni o il kaiser olandese Ruud Krol che per un quadriennio fece innamorare Napoli prima della grande sbornia popolare per Diego Armando Maradona. Non era certo un campione quel Michel Van de Korput del Torino. Un umile difensore, vezzeggiato dalla tifoseria degli odiati cugini della Juventus che lo ritenevano semplicemente una marca di lassativi. Intanto l’Avvocato Agnelli che non aveva dato retta al prezioso consiglio di Omar Sivori, portare in bianconero il 19enne Maradona, aveva ripiegato sul compassato Liam Brady. L’irlandese a distanza di trent’anni è ancora legato a quella Juve e al suo allenatore Giovanni Trapattoni al punto da esserne diventato assistente, ora che il Trap è il ct della nazionale di Dublino. Di quella prima ragionevole e limitata legione straniera Brady, così come l’austriaco dell’Inter Herbert Prohaska, furono i paladini del livello medio, certo distante dalle future eccellenze che la Juve trovò in Platini e Zidane e i nerazzurri in Mattheus e Ronaldo. Più “bidoni” che campioni, quegli 11 della stagione 1980-’81, con qualche genio incompreso che non aveva ancora il favore del traffico di telecamere puntate in campo. Perciò sfuggirono molte delle aperture millimentriche del trequartista tedesco dell’Udinese Herbert Neumann e soprattutto i colpi di tacco del buon Eneas, brasiliano del Bologna sconosciuto persino al suo tecnico Gigi Radice che con rimando epico involontario annunciava scettico alla stampa: «Abbiamo preso Enea!». Il brasiliano che scendeva in campo con la calzamaglia per difendersi dal gelo dell’inverno felsineo, rimase appena una stagione: giusto il tempo per provare il candido stupore della prima nevicata, mai vista prima in vita sua. Un’esistenza molto breve e un destino crudele gli tagliò la strada: Eneas è morto nel 1988, a 34 anni, in un incidente stradale. Ingiustamente forse Eneas è passato nella categoria dei bidoni dove però da sempre regna sovrano il “mito” arancione della Pistoiese alla sua prima storica promozione in A, il connazionale Luis Silvio Danuello. Una meteora che nel Paese dei misteri ne alimentò un altro: ma Luis Silvio era davvero un calciatore professionista? Dietro gli occhialini appannati dalla rabbia per la pessima annata della Pistoiese (retrocessa in tronco, ultima con 20 sconfitte su 30 partite) il suo allenatore Mondino Fabbri era convinto solo di una cosa: «Luis Silvio in campo è d’impiccio per i compagni». Con appena 6 partite disputate e una leggenda da gelataio nei pressi dello stadio di Pistoia per tutto il resto di quell’anno, Luis Silvio tolse il disturbo e se ne tornò a San Paolo dove oggi gestisce un’azienda di ricambi per macchine industriali. Bomber di carta, come le Panini e pseudofenomeni che appena toccarono il suolo italico si smarrirono. Fu il caso dell’argentino Sergio Fortunato, l’attaccante caldeggiato al Perugia dal poeta del tennis Guillermo Vilas. Doveva sostituire Paolo Rossi - condannato a star fuori per il Calcioscommesse - ma lo fece rimpiangere amaramente. Se ne andò nell’indifferenza generale, con sorpresa, oggi fa il procuratore dello juventino ex campione del mondo Mauro German Camoranesi. Chi non passò inosservato fu quel peperino arrivato ad Avellino da Rio de Janeiro, Jorge Juary. Il suo simpatico rito del “balletto intorno alla bandierina” dopo ogni gol, sembra lontano anni luce da quella prima pacifica invasione che ha dato il via allo stranierificio selvaggio, senza più poesia e troppi milioni buttati al vento, in un calcio in cui - come spesso anche nel resto della società - , non si distinguono neppure più i bidoni dai campioni.
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