martedì 18 aprile 2023
Per Enrico Palandri leggere ci apre all'altro ed è la via che educa alle differenze. Al contrario l’assenza di interesse per le storie produce chiusura ed egocentrismo
Ecco perché ci piacciono le storie
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C’è una parola che ultimamente viene utilizzata in modo insistente: “narrazione”. Non c’è talk show dove non si senta pronunciarla. «La sua narrazione non è corretta», «contesto questa narrazione», « vorrei proporre una narrazione alternativa» ecc. Fino a qualche anno fa si sarebbe detto “tesi”, “opinione”, “punto di vista”. Ora, invece, sempre e solo “narrazione”. Ma al di là dell’abuso linguistico (anche il lessico ha le sue mode), non c’è dubbio che narrare sia un’attività di primaria importanza per gli esseri umani.

Sin dall’alba dei tempi, nella nostra specie c’è stato un bisogno, di tipo antropologico, di raccontare e farsi raccontare storie per interpretare noi stessi e la realtà attraverso le parole che si connettono tra loro in una trama. Narrare costituisce una fondamentale facoltà sociale: ogni cultura ha affidato al racconto e al mito il senso di una memoria condivisa. È attraverso le parole che possiamo dire agli altri (ma prima ancora a noi stessi) chi siamo, che cosa viviamo, che cosa pensiamo, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre attese. Ha scritto Michail Bachtin: «La vita è percepita e strutturata come il possibile racconto che l’altro ne fa ad altri (i posteri)».

La religione stessa è molte cose: incontro, esperienza, dono (ricevuto e trasmesso), ma anche racconto, narrazione. I Vangeli stessi lo sono al massimo grado: racconti che diventano salvezza. Se questo è vero, in termini generali, per tutti, lo è ancor di più per gli scrittori, che per mestiere intessono narrazioni. Lo è senz’altro per un autore tra i più significativi dell’ultimo mezzo secolo come Enrico Palandri, del quale esce domani un volume di saggi dal titolo Sette finestre (Bompiani, pagine 144, euro 13,00)

Le “finestre” sono i percorsi nei libri degli altri, di quegli autori che hanno nutrito la mente e la penna di Palandri, aiutandolo a guardare più in profondità se stesso e la realtà, per poi mettersi a raccontarla: Platone, Lucrezio, Dante, Petrarca, Machiavelli, Leopardi, Keats, Baudelaire, Rilke, Freud, Joyce, Svevo, Montale e molti altri. L’autore li mette in dialogo attraverso accostamenti inediti, sostenuti da una vivace attitudine comparatistica. «Non siamo mai fuori dalle narrazioni. I miti sono vivi, una trama di racconti che ci precede ed emerge dal silenzio in una storia che è già iniziata. (...) Li troviamo a teatro, nella letteratura, in una pietra scolpita, nelle liturgie e suoi giornali, persino in un cartellone pubblicitario, e ovviamente nelle persone, nel mare, nelle nuvole, nei pianeti. Nel riconoscerli ci animiamo».

Per Palandri, la letteratura è uno strumento potente di apertura all’altro, di educazione sentimentale e, potremmo dire, di educazione alla diversità: «Ci innamoriamo dei personaggi nei romanzi e grazie a loro impariamo ad amare». Al contrario, l’assenza di interesse per le storie produce chiusura ed egocentrismo, sul piano individuale come su quello sociale: «Per il tale soggetto contano quelli che ha conosciuto, le cose che ha imparato, il resto è oltre e non esiste. Per il tale popolo, cioè per una soggettività collettiva, conta essere se stessi, italiani, tedeschi o americani, mettere la propria identità sopra quella di altri, senza davvero interrogarsi su cosa significhi essere italiano, tedesco o americano. Il resto del mondo degrada così rapidamente in una inesistenza che è fatta di ignoranza e distanza geografica o culturale, fino a sfociare nel colonialismo e nell’ideologia che lo giustifica, il razzismo».

C’è un’immagine che chiarisce bene il senso dell’operazione messa in atto da Palandri in queste pagine dense e suggestive, che per certi versi ricordano nel loro modo di procedere le Lezioni americane di Calvino. Se la scrittura è un flusso, qual è la sua prima scaturigine? L’autore utilizza la storia del dottor David Livingstone, il medico, missionario ed esploratore scozzese perduto in Africa alla ricerca delle sorgenti del Nilo, sulle cui tracce si mise Henry Stanley. «Non per spiegare, ma per continuare a cercare», commenta Palandri. E aggiunge: «Livingstone è un veicolo letterario, una metafora, lo uso per raccogliere frammenti da materiali sparsi, eterogenei. Nello scrivere e nel leggere cerchiamo come Stanley le tracce di qualcuno, o forse più di qualcuno, che si è perso alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Gli esploratori che si sono addentrati nella giungla sono le nostre letture. La ricerca è il mondo poetico».

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