venerdì 13 ottobre 2017
L’artista coreano è stato chiamato dai domenicani a confrontarsi con l’architettura di La Tourette. Ne è uscito uno scontro che esalta modi del tutto diversi di concepire l’uomo e il suo ambiente
Lee Ufan "Relatum Dwelling" (2017), convento di La Tourette (Alessandro Beltrami)

Lee Ufan "Relatum Dwelling" (2017), convento di La Tourette (Alessandro Beltrami)

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Da nove anni i domenicani del convento di La Tourette organizzano mostre di arte contemporanea nel gigantesco organismo progettato da Le Corbusier alla fine degli anni ’50. Ad avere raccolto l’eredità di padre Marie-Alain Couturier, tra i pionieri del rinnovato dialogo tra arte e Chiesa e committente del convento, è oggi frère Marc Chauveau che dopo Morellet e Kapoor quest’anno, in concomitanza con la Biennale di Lione, ha chiamato il coreano Lee Ufan.

L’artista e filosofo, 81 anni, è una delle figure di maggiore spicco degli ultimi 50 anni. Teorico del Mono-Ha (“la scuola delle cose”), movimento giapponese affine – ma dotato di una maggiore intensità spirituale – ad Arte Povera e Minimalismo, che supera la rappresentazione per porre l’attenzione alla qualità pura del materiale, trasformata in gesto ed equilibrio di tensioni e di forze, con un rigore che ricorda il teatro No. Lee Ufan ha realizzato installazioni nelle aule di studio, nel refettorio, nella sala capitolare e nella chiesa.

L’architettura di La Tourette più che domenicana è cistercense nell’aspirazione ed espressionista nel risultato. Cemento grezzo e vetro, nessuna decorazione se non negli studiati e selezionatissimi rimandi cromatici su porte, tende, impianti a vista – salvo nella cappella. Il convento e soprattutto la chiesa, luogo dalla spiritualità densa, ruvida e fantastica come un luogo di culto rupestre, è una delle realizzazioni dove più sembra materializzarsi il concetto di “ espace indicible”. Una nozione complessa, elaborata da Le Corbusier per lungo tempo, anche e specialmente nelle riflessioni che legano architettura e sacro. È un «avvenimento possibile in occasioni favorevoli», che implica quindi un quoziente di soggettività dato dall’esperienza individuale. “Spazio indicibile” dal 1945 in poi è per Le Corbusier il termine più adatto a dire l’emozione specificamente architettonica provata davanti a un edificio perfettamente riuscito da tutti i punti di vista: «Quando un’opera è al suo massimo di intensità, di proporzione, di qualità d’esecuzione, di perfezione, si produce un fenomeno di spazio indicibile. I luoghi si mettono a brillare». Un’esperienza eccezionale (Le Corbusier parla di «miracolo » e lo accosta «alla natura del sacro e non del magico») che, in quanto «fuori norma », è irriducibile a una pura analisi descrittiva e razionale. La cura del rapporto tra generale e dettaglio sulla base di una di- namica proporzionale complessa ma chiaramente percepibile, la precisione musicale e matematica dei rapporti ritmici (curati da Yannis Xenakis) che investe e stratifica la partizione di tutte le superfici, la drammatica sequenza offerta dalla promenade architecturale, il costante legame con il paesaggio naturale attraverso le grandi pareti vetrate e la sua radicale esclusione nella cappella, luogo rivolto al proprio interno, con uno scarto basato sul modo di usare la luce come materia al pari del cemento, sono i mezzi per una “forma mistica” dello spazio.

La cosa interessante è che Lee Ufan, che dello spazio è grande interprete, si è trovato spiazzato da tutto questo. «La prima impressione che ho avuto – ha detto l’artista – è stata di stordimento. È un edificio selvaggio, fortissimo, con il cemento grezzo che dona l’impressione di fragore». L’intensità spaziale riversata da Le Corbusier in La Tourette è stata percepita da Lee Ufan come una dimensione soverchiante. La divergenza è profonda, specchio di una culturale, spirituale e poetica (l’artista, abituato ad affidarsi al tempo e alla struttura della natura, individua in questa architettura la celebrazione della società industriale). Se Le Corbusier, sulla spinta di una attesa trascendente e rivelatrice (ma non metafisica), cerca un assoluto, uno «spazio oltre le parole», l’artista coreano, intriso dello zen, indaga invece gli interstizi, la tensione tra i termini di una relazione, potremmo dire lo “spazio tra le parole”.

Per smontarne quella che lui interpreta come violenza, la scelta di Lee Ufan è di abitare poeticamente la casa creata da Le Corbusier per «cento cuori e cento corpi nel silenzio», come chiese padre Couturier. Lo fa in una relazione-reazione condotta su due direzioni diverse: una per contrasto, l’altra per iperbole. La prima vede opporre alla forza del cemento la fragilità della carta giapponese. In una stanza l’artista avvolge i pilastri con lunghi rotoli di carta e copre il pavimento con una stuoia. In un’altra – ed è tra gli apici del percorso – crea una “camera nella camera”. Di carta sono pareti e pavimento rialzato: una sorta di cella di un tempio, inaccessibile per via della sua fragilità ma capace di sostenere al suo centro la verità elementare di una pietra.

Altrove Lee Ufan rilancia sovrapponendo alla forza del cemento qualcosa di ancora più primitivo e grezzo come le lastre di ardesia. L’elemento naturale, con cui l’architettura dialoga ma a distanza, oltre il vetro, entra di prepotenza all’interno. È quanto accade, in maniera più delicata, nella stanza in cui l’artista sovrappone una lastra di vetro a una pedana bianca, disponendovi sopra dei sassi, così da creare una superficie-specchio che porta il paesaggio (e l’architettura) dentro la camera.

L’artista risponde al proprio spiazzamento con un déplacement. Abitare per Lee Ufan è dunque atto che rivela una presenza, un riempire uno spazio di senso. Nell’atrio del refettorio dispone cinque grandi lastre di metallo a formare un cubo aperto nella parte superiore, vicino ai lavori di Richard Serra. Sporgendosi però oltre il bordo si nota all’interno una candela accesa. Questo abitare fragile, di nuovo, e silenzioso anticipa l’approccio tenuto da Lee Ufan nella chiesa. Qui l’artista, intelligentemente, sceglie di non affrontare di petto uno spazio radicale e sublime. Adotta invece una presenza discreta, in diretto rapporto con la natura religiosa dell’ambiente, collocando una tela bianca con al centro un elemento azzurro sulla parete di fondo, come una remota pala d’altare, e tra gli stalli della navata invece distende una forma allungata e scarlatta sopra un letto di sabbia e ghiaia, una sorta di elemento sepolcrale e insieme ricco di energia. I dipinti riprendono la vibrazione dei colori con cui sono tinti i tagli e i cannoni di luce della cappella. Nella chiesa la lotta, che appare anche come una collisione tra Occidente e Oriente, si scioglie nella chiave dell’ascolto.

Éveux, convento di La Tourette
AU-DELÀ DES SOUVENIRS
Lee Ufan chez Le Corbusier
Fino al 20 dicembre

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