martedì 29 novembre 2022
Louise Glück, premio Nobel nel 2020, riceve oggi il premio LericiPea: la sua riflessione sull'esperienza dello scrivere
La scrittrice Louise Glück

La scrittrice Louise Glück - Ansa

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Per gentile concessione di Louise Glück, Premio Nobel per la letteratura nel 2020, e di Massimo Bacigalupo pubblichiamo una pagina del volume di saggi Proofs and Theories. Essays on Poetry (1994, Ecco Press), ancora inedito in Italia. Louise Glück riceve oggi, 29 novembre, il Premio LericiPea alla carriera La cerimonia si svolge dalle ore 16.00 presso la Sala Consiliare della Provincia della Spezia e in collegamento streaming con il Consolato Generale Italiano di Boston (diretta sulla pagina Facebook del Premio). Dopo i saluti istituzionali segue un dialogo con l’autrice a cura di Bacigalupo, membro della giuria del Premio e traduttore di Louise Glück.

L’esperienza fondamentale dello scrittore è il senso di impotenza. Questo non significa distinguere lo scrivere dal vivere; significa correggere la fantasia che la scrittura creativa sia una serie continua di trionfi della volontà, che lo scrittore è uno che ha la fortuna di essere capace di fare ciò che vuol fare: iscrivere con sicurezza e regolarità il suo essere sulla carta. Ma scrivere non è una decantazione della personalità. E la maggior parte degli scrittori passano gran parte del tempo in vari tipi di tormento: voler scrivere, non riuscire a scrivere, voler scrivere diversamente, non riuscire a scrivere diversamente. In tutta una vita, si trascorrono anni nell’attesa di essere precettati da un’idea. Il solo vero esercizio di volontà è negativo: abbiamo nei confronti di quel che scriviamo la facoltà di veto. È una vita resa degna, credo, dal desiderio, non resa serena dalla sensazione del successo. Nel lavoro vero e proprio, è una disciplina, un servizio. O, per usare la metafora del parto che sembra immortale, lo scrittore assiste, facilita: è il dottore, la levatrice, non la madre. Uso la parola “scrittore” intenzionalmente. “Poeta” deve essere usato con cautela; designa una aspirazione, non una occupazione. In altre parole, non un sostantivo da mettere sul passaporto. È molto strano desiderare tanto ciò che nella vita non si può ottenere. Il saltatore sa, subito dopo la prova, quanto è andato in alto; il suo risultato si misura immediatamente e con precisione. Ma per quelli fra noi che tentano un dialogo con i grandi del passato, non è questione di aspettare: il giudizio che attendiamo è pronunciato dai nascituri; non potremo mai, nella nostra vita, conoscerlo. La profondità della nostra ignoranza circa il merito di quel che facciamo produce disperazione, ma nutre anche speranza. Intanto, l’opinione contemporanea si presenta di corsa come alternativa intelligente all’ignoranza. Il nostro compito è isolarci dall’opinione nelle sue forme terminali, rimanendo ricettivi e sensibili alla critica utile. Se è improprio parlare come “poeta”, è egualmente difficile parlare sul tema dell’educazione. Il punto credo sarebbe parlare di ciò che ha lasciato impressioni indelebili. Ma io scopro queste impressioni lentamente, molto dopo l’evento. E mi piace pensare che si producono ancora, e quelle vecchie continuano a essere rivedute. Si dice comunemente che il segno dell’intelligenza o vocazione poetica è la passione per la lingua, che è intesa come risposta eccitata all’unità comunicativa minima della lingua, la parola. Si pensa che il poeta sia una persona che non è mai sazia di parole come “ incarnadine” di Shakespeare. Questa non è stata la mia esperienza. Da quando a quattro o cinque anni ho cominciato a leggere poesie, ho cominciato a pensare ai poeti che leggevo come miei compagni, miei predecessori, dall’inizio preferivo il vocabolario più semplice. Quel che mi affascinava erano le possibilità del contesto. Ciò che mi stimolava, sulla pagina, era il modo in cui una poesia poteva liberare, attraverso la collocazione di una parola, attraverso accorgimenti di tempo o ritmo, tutta la sorprendente gamma di significati di quella parola. Mi sembrava che la lingua più semplice era la più adatta a questo scopo; una lingua che, nell’essere generica, è probabile contenga la più ampia e impressionante varietà di significati dentro alle singole parole. Mi piaceva l’ampiezza, ma la volevo invisibile. Amavo le poesie che sembravano così piccole sulla pagina ma che crescevano nella mente; non mi piaceva il genere verboso, calante. Non sorprende che il tipo di frase da cui ero attratta, che rifletteva questi gusti e abiti della mente, era il paradosso, che ha anche il vantaggio di salvare bellamente una natura dogmatica da una retorica troppo moraleggiante.

(Traduzione di Massimo Bacigalupo)

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