domenica 11 luglio 2010
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Alle 21,30 in punto Maria Dolens ha cominciato a dimenarsi e dopo qualche istante sono partiti i rintocchi assordanti. Da 85 anni la campana più grande del mondo è un vero strumento di pace. Suona per un paio di minuti ogni sera sul Colle di Miravalle, sopra Rovereto, per ricordare i caduti di tutte le guerre, ed è per questo anche uno strumento di fratellanza. Ma è costruita con il bronzo dei cannoni: così accanto a una generosità ormai proverbiale, qualche cosa di autoritario deve aver conservato. E ne ha dato prova clamorosamente durante il concerto conclusivo della seconda edizione del concorso di composizione ideato dal musicista Marcello Filotei proprio per estendere questa idea dello strumento di pace dai toni monodici della campana a quelli più elaborati e complessi della grande orchestra e della voce umana.Per tutta la durata del concerto, nel grande anfiteatro naturale da essa dominato, la campana sarebbe stata solo guardata dagli spettatori, salvo a far sentire la propria voce commovente e possente alla fine, una volta conclusi ad opera della grande orchestra sinfonica della Rai il brano di Andrea Portera, vincitore del concorso, e la prima esecuzione di Jerusalem, che la fondazione roveretana ha commissionato ad Ennio Morricone. Ma non è andata così: i rintocchi sono cominciati esattamente alla fine del primo di questi due pezzi. Anzi, se Daniel Kawka sul podio avesse lievemente rallentato le emozioni e le meditazioni di Portera, probabilmente la campana ne avrebbero coperto le ultime battute. Pareva il finale di un film di Hitchcock, con gli strumentisti in fuga verso le gradinate del pubblico quasi a cercar riparo; e gli spettatori che non sapevano se premiare col loro applauso la campana o piuttosto l’orchestra e l’autore di una pagina densa, anch’essa, come Maria Dolens, quasi ondeggiante nell’elaborato strumentale e nel modo in cui la voce del baritono (il bravo Christian Miedel) realizzava un ipotetico dialogo fra religioni diverse.Quando è tornato il silenzio è ripreso il programma, offrendo al pubblico l’atteso Jerusalem. Un Morricone per certi versi nuovo nella struttura e nello slancio creativo. Certamente ispirato nello sviluppo di un canto-preghiera che supera i tempi e gli stili, con evocazioni arcaiche e impasti modernissimi: gli ottoni severi, i ritmi seccamente scanditi dagli archi o in un dialogo abbagliante di flauti, Il baritono era lo stesso ma parlava un’altra lingua. La campana era ormai silenziosa. Non altrettanto gli spettatori.
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