venerdì 25 agosto 2023
Il critico Schreiber mette in guardia: in una società squilibrata e dai modelli precari, la rete delle amicizie non basta più. E il Covid ha svelato «le finzioni su cui fondavamo la vita in comune»
Le mille facce della solitudine

christophe-dutour/Unsplash

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Condizione umana di cui da sempre si occupa la filosofia, oggi conosce scenari nuovi: pandemia, conflitti, cambiamenti climatici. Un saggio autobiografico del critico d’arte Daniel Schreiber «Da sempre le persone sono sole. Da sempre provano questa sensazione, ovunque, tentando in tutti i modi di evitarla. La solitudine non è un fenomeno moderno, né tantomeno contemporaneo. Possiamo anche immaginare le culture e i tempi passati in altri modi, proiettandovi chissà quali idilli bucolici, religiosi o sociali, ma la filosofia e la letteratura hanno sempre affrontato il tema della solitudine».

Nihil sub sole novum, dunque? Sì, invece, perché la constatazione di Daniel Schreiber si accompagna nelle pagine di Soli (Add editore, pagine 160, euro 16,00, traduzione di Barbara Ivancic) a un lavoro intenso sul presente, fatto di nuove solitudini e di una nuova percezione sociale dello stare per conto proprio. Sì, perché se l’esperienza di pestilenze, calamità e guerre non è una novità nella storia dell’umanità, nuovo è il modo di viverla. E il fenomeno è in crescita, come testimoniano studi, cronache e tendenze, dai giovani agli anziani. Schreiber, giornalista, scrittore e critico d’arte, autore di una biografia di Susan Sontag, ci propone le sue riflessioni in pagine biografiche che attingono all’esperienza personale della fine di una relazione amorosa (nel suo caso omosessuale) e lavorativa, e a eventi tragici, collettivi – come la pandemia da Covid 19 – o privati, come l’inattesa morte per overdose di un amico.

È una vera e propria fenomenologia della solitudine quella che lo scrittore tedesco – cresciuto in Meclemburgo ai tempi della Ddr e residente a Berlino – ci fornisce: tanti ne sono i volti, quante sono le persone. C’è chi la cerca, chi la subisce. Chi soffre per la mancanza di un legame affettivo e il progetto di una famiglia. chi no. Chi sta male dopo pochi giorni di assenza di contatti sciali, chi ne fa volentieri a meno, anche a lungo. Riflessioni che l’autore alterna a una attenta disamina del pensiero sul tema, che attinge a innumerevoli filosofi e scrittori – da Hannah Arendt a Virginia Woolfe – passando per sociologi, psicologi e semiologi (può mancare Barthes in uno scritto dove il discorso sull’amore ha un posto rilevante?).

Non a caso sono otto le pagine di fitta bibliografia che danno un’impronta saggistica a quello che altrimenti potrebbe apparire soltanto un diario della pandemia come tanti altri usciti nel biennio doloroso 2020-2022 (il libro in edizione originale è del 2021). Invece lo scandaglio di Schreiber va molto più a fondo nelle pieghe dell’io e della società, investendo il rapporto con la natura. Che assume le vesti inquietanti del minaccioso cambiamento climatico, ma anche quelle curative di un bel panorama o della sistemazione di un giardino a cui l’autore si dedica a casa di amici. Oppure per l’appunto i rapporti di amicizia, che hanno un carattere ambivalente. Rappresentano sì una rete di sicurezza quando si vive una solitudine non voluta (e sono essenziali per vivere, in generale). Ma Schreiber esprime scetticismo nei confronti dell’esaltazione dell’amicizia come rimedio a tutti i mali. Questa mitizzazione ha ripreso voga, nota il critico, in un tempo caratterizzato da «evidenti squilibri», «esperienze di vita contingenti», «modelli di vita precari», quasi un surrogato della felicità, un amuleto magico.

In un capitolo, intitolato “The kindness of strangers” (la gentilezza degli estranei), l’autore sottolinea piuttosto la forza dei “legami deboli” – spesso sottovalutati – a partire dall’esperienza di un soggiorno su un lago svizzero con gli ospiti dell’hotel che lo fanno sentire come in una comunità. La solitudine odierna passa anche per gli scenari delle devastazioni belliche, dei regimi autoritari, delle tragedie umanitarie a cui assistiamo ogni giorno. Tanto che Schreiber paragona questa condizione alla “ moral injury”, concetto che proviene dagli studi sui disturbi posttraumatici che colpiscono i reporter di guerra, spesso testimoni di orrori. Insomna, Schreiber ci mette di fronte all’intreccio inestricabile tra vita vissuta e metavita riflessa, tra pulsioni di isolamento e stigma sociale, mitizzazione dell’amore romantico e della vita di coppia (e ancora una volta stigma sociale quando questa non è presente), allentamento delle relazioni , che nella pandemia è stato drammatico.

Lo descrive bene, parlando dello sgomento da lui privato agli inizi del confinamento di fronte agli scaffali vuoti di un supermercato. Un accaparramento, dovuto a paura, ma anche segno di scarsa responsabilità verso l’altro, contraddizione della tanto sbandierata solidarietà, proprio quando realmente ce ne sarebbe stato bisogno, nota. Non solo. Il drammatico picco di morti e la fine della normalità ha prodotto «un diffuso senso di sconcerto, il fallimento di quelle finzioni su cui la nostra esistenza in comune si era basata fino ad allora». C’è, poi, certamente un nemico subdolo che, riconosce Schreiber, è spesso compagno della solitudine, pur non essedo questa tout court una ma-lattia: la depressione. Lui stesso ne ha avvertito i sintomi in prima persona e li ha rivissuti leggendo il libro di Barthes dedicato alla morte della madre, Dove lei non è . «Quel libro riesce a trasmettere la sensazione che, talvolta, il semplice atto di essere vivi può essere percepito come un problema». Per il quale non c’è soluzione, oltretutto. Ecco allora che, seguendo il consiglio avuto da uno specialista, l’autore – ritiratosi a Lanzarote – sceglie di non tornare nell’«atmosfera stanca e buia» di Berlino e passa alla vicina Fuerteventura.

Gli impegni sono diradati e gli incontri si svolgono online. Cosa c’è di meglio allora di un po’ di solitudine per rimediare alla pesantezza della solitudine? Non è l’unico paradosso che Schreiber ci propone in un libro che non dà soluzioni, ma descrive e sviscera una condizione e ci fa riflettere su di essa, andando alle radici di alcuni concetti in voga. Ad esempio dell’idea di “cura di sé” che è molto di più di quanto promettono i guru del self help nella psicologia corrente e spesso spicciola – su cui Schreiber manifesta tutto il suo scetticismo – secondo le quali basterebbe andare in qualche spa a rilassarsi o disconnettersi per un po’ dai social. Ricette che non vanno al fondo strutturale del problema. Come fa invece la poetessa e attivista afroamericana Audre Lorde che, malata di cancro, dà la sua versione del self help: «Prendersi cura di sé è ben altra cosa dall’essere arrendevoli nei confronti di se stessi. È una questione di autoconservazione. È un atto politico di strategia bellica». Alla fine è a questa lotta che Schreiber intende spronare.

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