domenica 29 marzo 2009
L’ex fuoriclasse della racchetta: «I talenti in Italia ci sono ma bisogna lavorare sui difetti. Ai bambini occorre insegnare il gioco semplice Tornerò in campo, ma solo per allenare mio nipote» La nostra vittoria in Davis rese il tennis popolare, ora è noioso Giocano tutti allo stesso modo, tranne Nadal che è di un altro pianeta. E Federer che è il giocatore perfetto, se non incontra Nadal.
COMMENTA E CONDIVIDI
« A -dria-no, A-dria-no... ». Appena è sfumato il coro infernale del Fo­ro Italico è anche calato il sipario, e col tempo, perfino un velo pietoso sul tennis azzurro. Memorie d’Adria­no. Il graffio roco e accalorato della voce di “Bisteccone” Galeazzi ha chiuso la diretta salutando commos­so il suo smash d’addio al Centrale. La Vip “scordata” è andata a riposo nel fodero e adesso è appesa alla pa­rete di casa Panatta, l’ultimo eroe na­zionale dei gesti bianchi. Il suo eterno volto d’attore presto sarà quello del protagonista del prossimo film di Mimmo Calopre­sti. «Mimmo è un amico e questa idea del film nasce dalla voglia di raccon­tare gli anni ’70 partendo da quella storica vittoria di Coppa Davis in Ci­le, sotto il regime di Pinochet. C’era un’atmosfera strana, ma la tensione maggiore l’ho vissuta nell’Argentina di Videla: dall’albergo al campo si an­dava scortati dalle camionette dell’e­sercito. Un clima surreale...». Cosa ha lasciato in quegli anni, oltre ai successi in campo? «La gioventù - sorride - . I ’70 sono stati anni di grande fermento, di ta­lenti in ascesa in ogni ambito, dallo sport alla cultura. E poi c’erano tan­te belle ragazze e della buonissima musica per innamorarsi». Era il tempo di “Questo piccolo gran­de amore”»...«Le note che mi riaffiorano spesso so­no quelle del debutto nella stessa se­ra e dallo stesso palco di tre “giovani”: Venditti, De Gregori e Cocciante. La mia colonna sonora però è sempre stata la voce di Mina, lei incarna al meglio l’anima italiana». Panatta invece resta ancora l’ultima anima del tennis italiano, il figlio di Ascenzio, il custode del Circolo Pa­rioli che rese finalmente democrati­co lo sport dei nobili. «Non mi sono mai sentito strumento della lotta di classe applicata al ten­nis. Sicuramente le mie vittorie e quelle della Nazionale accelerarono un processo di popolarizzazione. Da lì in poi anche il figlio dell’operaio po­teva permettersi l’iscrizione a un cir­colo per prendere lezioni da un mae­stro». Merito suo e degli altri tre moschet­tieri azzurri: Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, la “squadra perfetta”. «Eravamo quattro personalità diver­sissime l’una dall’altra e anche quat­tro stili totalmente differenti in cam­po, ma a unirci fu l’essere stati tutti al­lievi del maestro Mario Berardinel­li». Che cosa ha significato essere un tennista in Italia negli “anni di piom­bo”? «Il fatto di viaggiare continuamente per il mondo ci rendeva immuni da quella “strategia della tensione” che era stata messa in atto. Eravamo con­centrati sui tornei e la realtà del no­stro Paese vista dall’estero ci sem­brava meno terribile». Nel tennis i giocatori di colore so­no sempre stati in minoranza, u­na forma di razzismo? «L’unico episodio assurdo mi capitò nel ’77 a Houston, lì nel circolo non erano ammesse persone di colore. Vinsi il torneo, ma quel cartello “vie­tato l’ingresso ai neri” mi fece star male... Sono passati trent’anni, per fortuna adesso negli Usa c’è Obama presidente e i giocatori di colore so­no tanti e competitivi». Il tennis però, dicono, era migliore quello di trent’anni fa... «È diventato più noioso. La differen­za è che nella mia generazione c’era­no almeno 20 giocatori ognuno con un loro preciso e distinto modo di giocare. Oggi giocano tutti alla stes­sa maniera, tranne Nadal che è di un altro pianeta. E Federer che è il gio­catore perfetto, basta che non in­contri Nadal». Due protagonisti dello star-system più che del tennis mondiale. «Se c’è una cosa che non ho mai sop­portato è il divismo nello sport. Tro­vo imbecille quel campione che pos­sa sentirsi superiore a Gino Strada so­lo perché riesce a mettere la palla dentro le righe... La mia vera forza è stata non prendermi mai troppo sul serio». E pensare che uno che ha il copyri­ght della “veronica” (volèe di rove­scio alta con schiacciata da dietro) e della “volèe in tuffo” con la sua Vip Panatta poteva anche tirarsela un po’... «Gesti naturali, istintivi. Non mi ri­cordo la prima volta che feci la “ve­ronica” e i tuffi erano l’eredità di un passato da portiere di calcio. La Vip era di legno, ma la produceva un’a­zienda metalmeccanica di Bassano del Grappa. È durata fino a quando non ho smesso, poi è cominciata la grande rivoluzione dell’attrezzo me­tallico, la fine del tennis epico...». Requiem per tutti i “giocatori d’at­tacco” come l’Adriano del Foro Ita­lico. «Gente più spettacolare i giocatori d’attacco. Eppure io e Noah siamo stati due casi rari che hanno vinto al Roland Garros. Impresa che non è riuscita a fuoriclasse come Becker, McEnroe. Lo stesso Federer lo vive come un tabù. Un giorno mi fa: “Bea­to te Adriano che hai vinto a Parigi”. E io: ma parli tu che hai vinto 5 volte Wimbledon?...». Borg , McEnroe, Nastase, Igueras, A­she, Vilas, chi è stato dei suoi avver­sari il vero fuoriclasse anche fuori dal campo? «Ashe era il più impegnato social­mente, specie per i diritti dei neri. M­cEnroe era un principe dell’eccesso in campo, quanto pacato e riflessivo fuori. Si è sempre interessato di tut­to: oggi è un grande esperto d’arte e la sua Galleria è una delle più im­portanti di New York. Come musici­sta mi piace un po’ meno, meglio le poesie di quel romanticone di Vilas. Le ha mai lette? Carucce». Non abbiamo ancora battuto sulla grande crisi del tennis italiano. «E non facciamolo - sorride - . I talenti ci sono, manca una “specialistica” per allenarli alla correzione dei difetti tec­nici. Nella mia Accademia fin da pic­coli insegniamo il gioco semplice, il tennis come divertimento che può anche diventare una professione, al­trimenti resterà una magnifica pas­sione da poter coltivare per tutta la vi­ta ». Ma non le piacerebbe allenare qual­che campione in erba? «Appena i miei figli si decideranno a darmi un nipote prometto che torno in campo per allenarlo personal­mente. E allora magari sentirete par­lare di un altro Panatta».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: