venerdì 3 novembre 2023
Il domenicano Emmanuel Durand si domanda come conciliare l’essere immutabile con sentimenti quali tristezza, ira, gelosia commozione e speranza. La risposta va cercata nell’incarnazione
Particolare dal “Ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt

Particolare dal “Ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt - WikiCommons

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Oggi vanno molto di moda le emozioni, divenute un criterio di autenticità dopo essere state sospettate per molto tempo di irrazionalità. Ma è possibile parlare di emozioni rivolgendosi a Dio, all’Essere assoluto e immutabile che ci è stato insegnato a catechismo e che è stato tramandato da secoli di tradizione cristiana? Ci prova il teologo domenicano francese Emmanuel Durand, docente ordinario di Filosofia e religione all’università di Friburgo, in Svizzera, nel volume Le emozioni di Dio. Tracce di un profondo coinvolgimento, ora tradotto da Queriniana (pagine 238, euro 27,00).
Il Dio biblico è soggetto di emozioni, che vanno dalla collera e dall’ira alla pietà e alla compassione, non è un Dio gelido come quello dei filosofi. «Un Dio incorporeo – scrive l’autore – sembra inadatto di per sé alle emozioni». Poi si chiede: «Un Dio emotivo è allora semplicemente una proiezione dell’umano, più o meno ipertrofizzato?». E aggiunge: «Certuni sono alle prese con un Dio freddo e distante, che si sforzano di negare o denunciare a ogni costo. Altri sono più o meno traumatizzati da un Dio collerico e oppressivo, ereditato da una “pastorale della paura”. Altri puntano esclusivamente su un Dio compassionevole e misericordioso, senza collera né giudizio. Le nostre rappresentazioni di Dio non sono vergini. Si impone un lavoro di delucidazione». Ed è quello che Durand compie riguardo al tema delle emozioni in Dio: come conciliare l’immagine di un Dio immutabile con sentimenti come la tristezza e la commozione, la gelosia e l’ira, addirittura la speranza? Certo, affrontando questo tema spinoso, la teologia cristiana non può non tener conto dell’Incarnazione: Dio ha assunto la nostra carne, inclusa l’affettività. Non solo, il rapporto fra divino ed umano è del tutto speciale per la fede cristiana: «L’umano è non solo creato da Dio, ma chiamato da Dio. Ciò significa che l’umano non è solo diverso da Dio, ma è anche fatto per lui. L’umano è strutturalmente disposto a elevarsi verso Dio e a essere visitato da lui». Come ci ha insegnato sant’Agostino, non è quella dell’atarassia, dell’imperturbabilità sostenuta dallo stoicismo, la via scelta dal cristianesimo, che non ha espulso la sensibilità ma l’ha integrata nella dimensione morale.

A proposito della passione, dell’amore e della gelosia Durand attua un dialogo a distanza tra il profeta Osea e il teologo Dionigi l’Areopagita. Quest’ultimo applica la teoria dell’amore neoplatonico alla visione del Dio biblico: per lui, come nella tradizione greca, eros e agape, che esprimono il desiderio amoroso e l’amore di carità, sono assimilati. Ma, come ha commentato Tommaso d’Aquino, la sua concezione dell’amore divino come pura sovrabbondanza non sempre si concilia con l’amore di cui parla Cristo nei Vangeli: «Nel Nuovo Testamento – rileva Durand – l’amore di Dio è agape, al di là di ogni calcolo ragionevole». Una realtà ben espressa nel libro di Osea, che racconta l’amore di Dio per il suo popolo attraverso le vicende del profeta, del suo matrimonio con una donna dissoluta che rappresenta l’infedeltà del popolo, e l’amore del genitore verso il figlio ribelle. Tutto è metafora dell’amore divino, che ha accenti paterni e materni, di grande tenerezza e vicinanza alle vicende umane. Non un Dio lontano e inaccessibile. A proposito del quale così ha scritto Origene: «Quale è dunque questa passione che egli ha sofferto per noi? La passione della carità. E il Padre stesso, Dio dell’universo, pieno di misericordia, indulgente e pietoso, non patisce anche lui in questo modo? Dio prende su di sé i nostri costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre passioni. Il Padre stesso non è impassibile. Se lo si prega, prova pietà e compassione, un sentimento d’amore». E ancora Tommaso farà chiarezza su questo punto: in una sorta di teologia delle passioni divine dice che solo la gioia, il godimento e l’amore sono propriamente confacenti a Dio, dato che l’amore di Dio per le sue creature è un atto volontario, eterno e definitivo, assai più che una semplice emozione passeggera.

Se la gelosia di cui parla spesso l’Antico Testamento esprime il rapporto di esclusività richiesto da Dio, allo stesso modo la tristezza divina è segno dell’amore primordiale per uomini e donne: Dio si rattrista a causa del peccato che sfigura le sue creature, perché le ama. E la sua ira si manifesta perché vede l’umanità compiere il male: il peccato che vede manifestarsi è per lui intollerabile, la sua è un’indignazione attiva dinanzi al male. Si può poi parlare della speranza di Dio? Con timore e tremore, Durand non rifiuta di affrontare alcun discorso, per quanto arduo, che tocchi le emozioni di Dio, e dice: «Benché Dio non sia soggetto di speranza quanto alla propria beatitudine, pienamente posseduta, potrebbe darsi che egli speri – con una passione superiore di speranza – la beatitudine delle sue crea-ture. Se i beati sperano la beatitudine congiunta dei loro fratelli e sorelle ancora in cammino, Dio non è forse il primo a sperare ancora di più la beatitudine congiunta dei suoi eletti? L’inclusione di ciascuna delle sue creature salvate nella comunione divina è allora forse per Dio oggetto di speranza? Sono rari i teologi che hanno osato rispondere affermativamente a domande di questo genere».

Fra essi, come noto, Hans Urs von Balthasar. L’immutabilità di Dio, affermata costantemente dal magistero della Chiesa, può essere conciliata col tema della tristezza di Dio, cui abbiamo accennato, solo alla luce della Croce. Non può coincidere con una sua insensibilità dinanzi alle sventure degli esseri umani. «Nelle sue tristezze – spiega Durand – Dio è interamente desolato per le sue creature, e non per sé. Dio è il solo a essere indefinitamente capace di una tristezza vissuta unicamente per gli altri, senza alcun ripiegamento su di sé e senza alcuna sofferenza per se stesso». Però, in Cristo c’è una modalità precisa in cui questa tristezza si esprime: «Non è la natura divina che soffre, piange e si rattrista, sicuramente. Non è nemmeno la natura umana del Figlio, separatamente dalla sua divinità, che soffre. È il Figlio di Dio in persona che patisce nella sua carne, in virtù della sua natura umana, vulnerabile e passibile. I pianti di Gesù sono le lacrime del Figlio. Dio ha voluto piangere nella carne che egli condivide con noi». Durand ripercorre i tanti episodi del Vangelo in cui Gesù manifesta sentimenti e passioni umane, dalla gioia alla collera, dalla tristezza all’angoscia. Tutte emozioni che rappresentano il coinvolgimento di Dio con la vicenda umana: «Se la volontà di Dio passasse sopra alle nostre libertà per compiersi di per sé, con o senza di noi, Dio non proverebbe né gioia né tristezza, né speranza né ira, né audacia né rimpianto. Le emozioni di Dio sono le tracce di un’alleanza in corso di dispiegamento».

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