venerdì 18 marzo 2022
Escono dopo 47 anni su vinile i brani originali del film “L’ultimo treno della notte” musicato dal grande compositore che all’inizio non firmò alcuni western, nemmeno “Per un pugno di dollari”
Le colonne sonore nascoste di Morricone
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È arrivato anche L’ultimo treno della notte, con quasi mezzo secolo di ritardo. Un film del 1975 ad alto tasso di violenza impreziosito però dalle musiche di Ennio Morricone che escono ora per la prima volta in vinile con tutte le tracce finalmente presenti. Un’autentica chicca, per morriconiani e non, questo long playing che riemerge dalle polveri del passato proprio mentre il ricordo del Maestro sta rivivendo più che mai sul grande schermo grazie al meraviglioso film documentario Enniodi Giuseppe Tornatore. Il vecchio thriller di Aldo Lado, tra i film più cruenti mai prodotti in Italia, vantava comunque un notevole cast con attori del calibro di Flavio Bucci, Enrico Maria Salerno e Franco Fabrizi, oltre alla debuttante statunitense Irene Miracle poi protagonista di Inferno di Dario Argento e vincitrice di un Gloden Globe per Fuga di mezzanotte di Alan Parker.

Se in La corta notte delle bambole di vetro, il primo film diretto da Aldo Lado nel 1971, Morricone aveva usato il suono di un battito cardiaco per sottolineare lo stato catatonico del protagonista creduto morto in obitorio, ne L’ultimo treno della notte si ode incalzante lo sferragliare del treno a simboleggiare le violenza commesse sul treno da giovani delinquenti. In sintonia con gli intenti del regista, che vorrebbe attaccare la società borghese e la violenza del potere, Morricone utilizza anche la canzone pop pacifista A flower’s all you need, interpretata da Demis Roussos, all’epoca stampata soltanto su un raro 45 giri giapponese e ora presente nell’inedito vinile.

Ma il Morricone “segreto” nasconde molti altri tesori rari o sconosciuti, come per esempio alcuni film da lui musicati sotto pseudonimo, escamotage utilizzato però soltanto per alcuni western. A partire dal primo, Duello nel Texas (1963) che è anche in assoluto il primo western italiano, con la regia dello spagnolo Ricardo Blasco. Qui Morricone firma le musiche con lo pseudonimo di Dan Savio. Alle riprese aveva partecipato anche l’italiano Mario Caiano, regista l’anno dopo del secondo western italiano, Le pistole non discutono. E stavolta Morricone firma le musiche con il proprio nome, cosa che invece non farà subito dopo per il successivo Per un pugno di dollari, celeberrimo film che segna il debutto del sodalizio con l’amico regista Sergio Leone.

Mistero, bizzarria o semplice intreccio di singolari circostanze? «Le pistole non discutono e Per un pugno di dollari sono stati entrambi prodotti dalla Jolly Film, così per consentire a Leone di debuttare nel genere western limitando i costi di produzione furono utilizzati il set spagnolo e gli stessi costumi di Le pistole non discutono» spiega il musicista e compositore milanese Claudio Balletti, profondo conoscitore dell’opera di Morricone e autore tra l’altro della colonna sonora del docufilm sulla pandemia Milano 2020 trasmesso lo scorso maggio in prima serata da Rete 4. Tra i due, il film di punta è ovviamente quello di Caiano, così sia Leone sia Morricone (Dan Savio) si firmano con pseudonimi, anche per spacciarlo per un film americano. Ma solo all’inizio.

«La Rca stava aspettando di pubblicare la colonna sonora di Per un pugno di dollari, il cui titolo provvisorio era Il magnifico straniero– racconta Balletti –. Qualcuno della produzione aveva frattanto cambiato il titolo e nelle sale il film era uscito appunto come Per un pugno di dollari. La Rca però non lo sapeva, così il disco uscì molto dopo ma a quel punto, visto il successo al botteghino, con i crediti giusti sul disco e nei titoli di testa e di coda della pellicola, musica di Morricone e regia di Leone».

Ma Dan Savio non è stato l’unico pseudonimo utilizzato da Morricone. Anche a Leo Nichols ha fatto ricorso un paio di volte il compositore romano. Successe per Un fiume di dollari del ’66, primo western del regista Carlo Lizzani che si firmò con lo pseudonimo Lee W.Beaver. In quel caso Morricone non aveva nessun particolare motivo per nasconedere il proprio nome nei crediti del film, ma lo fece solo per allinearsi alla scelta di Lizzani che preferiva non rendere riconducibile a lui quell’intromissione in un genere in cui debuttava subito dopo aver girato due film impegnativi e di tutt’altro valore come Il processo di Verona e La vita agra. Stesso anno e ancora musiche a firma Leo Nichols per il film western Navajo Joe di Sergio Corbucci.

Certo, alla base della scelta di usare pseudonimi c’era anche il fatto di prendere in qualche modo, idealmente, le distanze da un genere e da un’attività, quella di autore di colonne sonore per il cinema (e prima di arrangiatore di musica leggera alla Rca), invisa all’ambiente accademico dal quale proveniva. In fondo, Morricone era stato l’allievo prediletto di Goffredo Petrassi che si era in parte sentito tradito da quel talento che alla musica d’avanguaedia e alla composizione colta stava preferendo il genere popolare. Questo fu per Morricone motivo di grande sofferenza interiore, come viene ben sottolineato anche nel docufilm Ennio.

Così ci sono anche alcuni film di cui il Maestro non ha mai voluto parlare volentieri, ritenendo forse di essersi prestato con la sua musica alla realizzazione di un prodotto d’arte non all’altezza. Tra questi c’è Vergogna schifosi (1969) di Mauro Severino, con Lino Capolicchio. Ambientato a Milano, racconta di un omicidio e di un gioco ricattatorio di tre giovani. A elevarsi è la musica di Morricone che tocca vertici di bellezza accompagnando con un ammaliante “girotondo”, una ossessionante nenia basata su una scala nel modo frigio (molto usata nel jazz), le scene di una sorta di gioco dell’oca. I rapporti con i registi non sono sempre stati idiliaci nemmeno per uno come Morricone, che comunque ha normalmente trovato il giusto connubio tra le sue idee e quelle dei cineasti.

Oggi come oggi al compositore di colonne sonore viene dato il tempo della sequenza da musicare, così può comporre una frase ad hoc sia nella durata che nel suono da legare all’immagine. In passato però poteva succedere, anche in film importanti, che partisse la musica in una determinata sequenza e che venisse di colpo silenziata. Il montaggio veniva talvolta fatto a prescindere dalla colonna sonora e c’erano registi a cui andava bene qualsiasi cosa. Un esempio? Uno dei più bei brani scritti da Morricone per la sua musa canora Edda Dell’Orso, In un sogno il sogno, presente nel film La donna invisibile (1969) del regista Paolo Spinola. Il brano parte in sordina, sotto a un dialogo, poi si sviluppa e cresce ma all’improvviso viene troncato brutalmente. Dell’Orso lo considerava uno dei migliori mai cantati, al livello di Scion Scion di Già la testa.

«Contro certi maltrattamenti dell’arte musicale nel cinema non si poteva fare nulla – dice Balletti –. Si scoprivano certi misfatti quando ormai il montaggio era già stato concluso. Quando capitava, Morricone ovviamente evitava di collaborare ancora con questi registi». Tra questi, i fratelli Taviani, con cui chiuse dopo aver composto le musiche di Allonsanfàn( 1974) e Il prato (1978): i due registi infatti si intromettevano troppo intervenendo persino sull’opportunità o meno di certi passaggi musicali e influenzandone la creatività.

Ma c’è un film in particolare di cui il Maestro non amava parlare, Diabolik, uscito nel 1968, per la regia di Mario Bava. «Di quel Diabolik non esiste una colonna sonora ufficiale su disco, forse sono andati persi i nastri – racconta Balletti –. Per sentirne la musica bisogna andare a rivedersi il film, da cui era stato tratto un pessimo bootleg, con un monofonico suono scadente e ovattato. Ennio non stravedeva per quel lavoro, eppure il tema principale è molto bello. Era cantato da Christy, una delle voci dei Cantori Moderni di Alessandroni». Il tema di quel lontano Diabolik stava per tornare nel remake dell’anno scorso dei Manetti Bros. I compositori Pivio e De Scalzi volevano infatti ripescarlo per la loro colonna sonora, ma alla fine non se n’è fatto nulla perché non funzionava abbastanza.

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